Funerali di monsignor Arrigo Chieregatti

“L’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio”, ci spiega l’apostolo Giovanni. L’amore è tutt’altro che assecondare le nostre pulsioni superficiali, cosa così facile per una generazione egocentrica, che distorce l’amore rendendolo privo di sapore, facendo consumare tutto per sé, con la conseguenza di essere incostanti, presi dalle preoccupazioni del mondo, dalle seduzioni della ricchezza, con un cuore pieno di pietre che si è indurito come chi pensa che amare sia possedere. L’amore è sempre dono, da donare e da ricevere. L’apostolo non parla di un amore qualsiasi, perché indica Gesù, il suo amore pieno, senza limiti, più forte delle delusioni, dei calcoli, dei ruoli, capace di vincere ogni divisione. I santi non sono i perfetti secondo il mondo ma secondo Dio, cioè quelli che si sono affidati, che hanno servito, che hanno sbagliato ma hanno chiesto aiuto, che hanno amato rendendo dolce quello che prima era per loro amaro, che sono stati miti e umili, perché l’amore copre una moltitudine di peccati. Era una delle preoccupazioni di don Arrigo: che il Vangelo fosse confuso con i tanti prodotti per il benessere individuale, per una felicità da consumo, perché “un mondo che ha come unica legge quella del potere e del profitto non potrà mai accettare una prospettiva in cui l’unica legge è l’amore per gli altri”. “Tutti cerchiamo l’amore ma non vorremmo mai che si identificasse con la croce e che ogni amante fosse un crocifisso. Il centurione aveva saputo vedere proprio questo: un servo che si era perso per amore”. L’altra preoccupazione di Arrigo era che si complicasse la bellezza dell’amore di Dio e delle persone, facendone una regola, riducendolo alla misura avara dei farisei, all’ipocrisia di un amore ridotto a calcolo, a convenienza e non a pienezza della vita, possibile ai peccatori.

L’amore viene sempre da Dio e nell’amore non c’è timore. È la libertà e il giogo leggero di cui parla Gesù. Capiscono e vivono l’amore di Gesù i piccoli, quelli che scelgono la via dell’umiltà e della mitezza, i grandi che diventano piccoli e che sentono la liberazione dalla stanchezza e dall’oppressione che è insopportabile per chi ama e vuole il bene dell’amato; chi vuole liberare dalla prigione del peccato, della solitudine; chi ha il cuore ferito e sente la fragilità della propria condizione, l’incertezza del suo cammino ma non rinuncia a cercare; chi sperimenta l’abisso del suo cuore e l’inquietudine di colmarlo; chi ha sbagliato e non sa da che parte ricominciare, inseguito da giudizi che lo condannano e lo inchiodano al suo passato. Ecco, a loro Arrigo indicava l’amore, l’amore di Gesù, mite e umile di cuore, e il suo giogo, l’unico legame che desiderava, quello dell’amicizia. Venite a me: era facile andare da Arrigo. Lui non metteva certo dogane! Il ristoro è il suo amore che riaccende il cuore in quelli che il mondo considera perduti, inutili, falliti. È la via dell’amore quella della perfezione. Il giogo è dolce e leggero per chi ama, con la libertà creativa dell’amore, ma anche con il legame che unisce all’amato, obbedienza che richiede sempre la libertà. Il giogo diventa pesante e amaro per chi non ama e riduce l’amore a misura, confronto, calcolo, legge di cui non si comprende più la liberazione. “Sovente l’essere cristiani è avvertito come una specie di titolo nobiliare che ci dà dei privilegi in funzione della nostra salvezza”. Amore fino ad amare i nemici, perché “chi ha paura dei nemici ha paura di se stesso.

Essere cristiani vuol dire non avere nemici. Non possiamo legittimare nessuna affermazione di inimicizia. Colpendo il nemico colpisce se stesso. Dobbiamo avere il coraggio di distruggere l’ideologia del nemico, chiunque esso sia. Dio è Dio perché non ha nessuno come nemico”. “Centrati su se stessi, gli uomini cercano disperati la rassicurazione della propria vita. Vivendo nell’inquietudine del domani accumulano (accumuliamo!) con ogni mezzo i beni da cui sperano la salvezza. Se ne potrebbe uscire se smettessimo di essere preoccupati per i nostri possessi, forse scopriremmo con meraviglia un altro modo di vivere, diverso da quello delle nostre ossessioni. Rinunciando alle garanzie illusorie forse troveremmo la vera vita per scoprire finalmente Dio in mezzo a noi. Saremmo mai capaci di questa conversione?”. Sono le parole che don Arrigo pronunciò nella chiesa di Pioppe, la sua parrocchia, larga, accogliente, talvolta imprevedibile come è la vita, dove tutti hanno trovato una porta aperta e la presenza misericordiosa e luminosa di Dio, senza imposizioni. Un Dio in mezzo alla gente, nella comunità, scoperta di un altro modo di vivere, personale, affettivo, esigente e dolce, coinvolgente e responsabilizzante, senza giudizio e con un confronto rigoroso con se stessi e con Lui nel silenzio. Nell’amore ci si compromette, anzi l’amore è compromettersi. Non si compromette mai il tiepido, chi sceglie misure avare. Non sbaglia ma non ama, perché compromettersi è perdersi, regalare, donare, esagerare, provare, anche sbagliare. “Nella strada del mio errore Dio mi ama; anche quando mi lamento a causa del mio peccato, Dio non mi abbandona e non mi rimprovera; quando non riesco a trovare la via del ritorno, Dio mi cerca e mi è accanto. È Dio che mi cerca e mi ha sempre trovato, mi consola, mi rimette tutti i peccati e non mi imputa mai il male che ho commesso. Quando gli ho fatto del male, Dio mi fa del bene, quando sono suo nemico, mi tratta da amico, soffre con me, niente è pesante nella mia vita, così Dio ha vinto il mondo, la tua fede in me. Muore con me e così ha ragione dei suoi nemici: dichiarando di non aver nessuno come nemico”.

Arrigo non indicava strade, le apriva e le percorreva insieme ai tanti compagni di strada, tutti quelli che incontrava, con la sua originale arte dell’incontro, il kairos, di rendere uno sguardo, un colloquio, l’inizio di qualcosa di importante, un legame, un nuovo inizio non prevedibile, omologato. “Cerca la tua strada, io ti sto accanto”. Sapeva che il primo e vero compagno di strada che si sarebbe affiancato, e che lui sapeva avrebbe parlato, è Gesù, sorprendente pellegrino sempre interessato alle nostre vicende e alle nostre sofferenze, che riconosciamo nello spezzare il pane, nella gioia della mensa, nella pratica della condivisione e soprattutto camminando. Sapeva che avremmo incontrato Lui. “Dio ci ama per primo e quando sbagliamo Dio ci ama il doppio”. Sempre con il suo dolcissimo sorriso e sempre con il rassicurante e anche responsabilizzante: “se vuoi, se lo vorrai”. Arrigo è stato viandante di una Chiesa in cammino, accettando di andare ai margini, a cercare i tanti che sono sul ciglio della strada e che, come il cieco Bartimeo, sono zittiti dalla folla e anche dagli stessi discepoli di Gesù perché non disturbino. I poveri, gli ultimi, i deboli, gli ammalati, le persone disabili, i migranti, i nomadi, chi sperimenta il disagio psichico e con loro anche i tanti cercatori di Dio. Arrigo era capace di vivere gli opposti e di accogliere, sempre, e senza imporre il giogo ha indicato a tanti una strada. Arrigo c’era sempre, con la sua capacità di ridere e di giocare con la vita, con il rigore e la tenerezza. Ricordava nel suo 50° di sacerdozio: “È sempre stato un viaggio verso l’ignoto, si è stati spesso nella nebbia e spesso il cammino nascondeva pericoli e delusioni.

Ma è stato possibile fare il cammino perché ci siamo incontrati e non ci siamo lasciati mai soli e ci siamo così sostenuti”. Arrigo era psicologo, monaco, pedagogista, attivista, professore universitario (ha insegnato all’università di Phnom Penh, a Bologna e a Bergamo), terapeuta, cooperante, eremita. Dopo il seminario a Bologna, dove aveva conosciuto e diffuso la figura di Charles de Foucauld con Mons. Ancarani, allora rettore del seminario, iniziò la pubblicazione di “Jesus Caritas”, sperimentò l’assoluto di Dio, l’Adorazione, il silenzio. Venne ordinato dal Cardinale Giacomo Lercaro, fece l’esperienza dei preti-operai in Francia nel 1959. Monsignor Luigi Bettazzi lo volle assistente diocesano della Fuci. Visse pienamente la Chiesa del Concilio e la ricerca di quegli anni, assecondando le speranze, incoraggiando i progetti dei giovani, convinto di un cristianesimo “incarnato” nella vita di ciascuno con le diverse difficoltà per tutti. Sempre con generosità, incomprensioni ricevute e date, ma con un senso di appartenenza che era così profondo da permettergli tanta libertà. Non dimentichiamo a cosa era ridotto un cristianesimo disincarnato, lontano dalla vita, anzi pauroso e diffidente di questa, altero e supponente, perché non sapeva riconoscere nell’altro la bellezza di Dio. Dossetti, allora Provicario generale, gli consigliò di prendere la strada dello studio. Si laureò in Teologia a Milano, insegnò Psicologia e Canto gregoriano in seminario, poi si specializzò in Psicologia religiosa a Lovanio.

Impossibile ricordare tutto. L’esperienza con l’Abbé Pierre e le comunità di Emmaus, i laboratori per disabili con don Saverio Aquilano, i viaggi in Algeria e il deserto con Carlo Carretto, la direzione della rivista “Jesus Caritas” ma anche Franco Basaglia, lo psichiatra che riaprì i manicomi e che lo volle in Veneto “perché qui sono ossessionati dal peccato”. Lavorò come psicoterapeuta presso l´Ausl, seguì il Centro medico sociale per adulti psicotici gravi, il laboratorio di salute mentale insieme a Millo Rebecchi, Andrea Canevaro, Nino Loperfido, Sandro Ancona. E ancora la cooperazione internazionale, ad Hanoi coi bambini di strada, in Cambogia e Laos, l’edizione italiana della rivista “Interculture”. L’incontro con l’Oriente lo portò in India, ebbe un rapporto strettissimo con il benedettino Henri Le Saux, protagonista del dialogo tra Cristianesimo e Induismo, Arturo Paoli, profonda fu l’amicizia con il teologo e filosofo Ramon Panikkar e con Bede Griffiths, altro grande interprete della sintesi tra Occidente e Oriente. I viaggi, il dialogo tra culture, l’incontro tra religioni, la meditazione che a Malfolle si tradusse nell’ashram della Trasfigurazione da lui fondato. Silenzio e parole, digiuno e convivialità, ricerca e affermazione. Con i sacramenti, i matrimoni, i battesimi, la catechesi, arrivava al cuore di tutti, nessuno escluso, educando sempre all’incontro con l’altro, con il diverso, costruendo pace, senza sconti, indicando le responsabilità, ad iniziare dal commercio delle armi e dalla sua produzione.

Parlava di morte, Arrigo. Non la temeva: “Chi muore entra nel silenzio e se avremo il coraggio di entrare nel silenzio il cammino della persona che ci ha lasciati diventerà un’indicazione per il nostro cammino verso la vita”. Incontrerà tanti. Tutti, senza fine. Vedrà i vari lati della montagna che è il mistero di Dio. Soprattutto sperimenterà la pienezza di quella vita infinita che ha cercato e trovato sulla terra, anticipo e riflesso di quella del cielo. Vivrà pienamente quella preghiera di Charles de Foucauld che tanto lo commuoveva e lo esprimeva: “Padre metto la mia vita nelle tue mani: fa di me quello che tu vuoi. Sono disposto a tutto, accetto ogni cosa purché si compia in me e in tutte le creature la tua Volontà. Metto la mia vita nelle tue mani, te la consegno mio Dio, con tutto l’ardore del mio cuore perché ti amo, ed è per me un bisogno di amore il darmi, il consegnarmi nelle tue mani, con infinita fiducia perché Tu sei il mio Padre”. È stato così. Sarà così. Per sempre. In pace e pienezza.

Cattedrale di San Pietro, Bologna
15/01/2024
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