Intervento al XIV Congresso del Movimento Cristiano Lavoratori

Carissimi/e,

Papa Francesco nel vostro incontro in occasione del Cinquantesimo (dicembre 2022) ha dato un mandato preciso al movimento, che si può riassumere in una sola affermazione: prendetevi cura del lavoro! Avete specificata questa vocazione nel nome, che associa l’appartenenza cristiana al tema del lavoro. Francesco vi ha incoraggiato a rendere concreta questa associazione: le nostre parrocchie devono diventare luoghi dove i lavoratori sono di casa e l’associazione ha bisogno in ogni stagione di aprirsi all’ascolto delle trasformazioni del mondo del lavoro. I vostri circoli sono tutt’altro che un “dopolavoro”, ma per certi versi un lavoro vero, serio, pieno, dove non occupare il tempo ma mettersi a disposizione di quella grande messe del mondo dove, non dimentichiamolo, siamo mandati, e dove c’è tanto da fare perché ci sono un’enorme, insopportabile e terribile sofferenza, ingiustizia, ma anche opportunità da cogliere, bellezza da servire. Vi ha detto il Pontefice:

«Siete movimento di lavoratori, e potete contribuire a portare le loro preoccupazioni all’interno della comunità cristiana. È importante che i lavoratori siano di casa nelle parrocchie, nelle associazioni, nei gruppi e nei movimenti; che i loro problemi siano presi sul serio; che la loro richiesta di solidarietà possa essere ascoltata. Vi esorto a tenere mente e cuore aperti ai lavoratori, soprattutto se poveri e indifesi; a dare voce a chi non ha voce; a non preoccuparvi tanto dei vostri iscritti, ma di essere lievito nel tessuto sociale del Paese, lievito di giustizia e di solidarietà».

Anche chi è fuori dal mondo del lavoro ha molto da fare, forse ancora di più. Lavorare per risolvere i problemi, per aiutare a trovare le risposte, per renderle possibili. Quando si perde il bene comune prevalgono logiche di parte e il tutto non interessa più. Si inizia a litigare, si smette di aiutare. Le logiche personalistiche o autoreferenziali finiscono per far perdere le opportunità, per rendere difficile quello che sarebbe possibile e semplice. Lavoro è prendersi la responsabilità di tentare una risposta o semplicemente di aiutare. Abbiamo anni in più che possiamo spendere: riempiamoli e mettiamo a profitto le nostre competenze, tra queste anche l’esperienza, la nostra passione che è una forza da non disperdere, soprattutto perché in giro ce ne sono molte di quelle tristi, quelle egocentriche, che convincono a possedere e pensare a sé e non a donare e pensare agli altri. Non dobbiamo accogliere i nuovi italiani? Chi protegge i minori non accompagnati, anche aiutandoli ad affrontare il passaggio dei 18 anni, quando smettono di essere e non sono ancora? Accoglienza è anche trovare casa, ma pure far sentire a casa, ascoltare, guardare negli occhi, dare fiducia, insegnare i doveri, facendo sentire il diritto ad un legame, ad un posto! Non dobbiamo inventarci formazione alla vita per chi non ha padri o madri e spesso è solo uno straniero? Non dobbiamo sconfiggere la solitudine, che isola, deprime, infragilisce? Non dobbiamo liberare da tante paure con la via di una solidarietà appassionata, più bella e umana, da quelle passioni insane e tossiche? E ci ridanno quella, semplicemente bellissima, di essere umani e cristiani, cristiani che amano e salvano, che non giudicano e guardano a distanza? E l’Africa non ha qualcosa di dire anche a noi? Chi ha detto che servono grandi mezzi per avviare esperienze di sviluppo e di formazione? I nostri circoli devono costruire e ricostruire nella vicinanza una vita comunitaria spesso indebolita o inesistente, ma lo possiamo fare se aiutiamo, se abbiamo interesse per chi incontriamo, capendo la sofferenza nascosta, le ferite della mente, come i tanti disagi psichiatrici che rivelano, certo, la nostra fragilità, ma anche quella delle nostre relazioni che possono rientrare e proteggere. E poi la pace. Cosa ci chiede l’esortazione ad essere artigiani di pace in un mondo che prepara la guerra nella chiusura, nell’ignoranza, nel pregiudizio, nella polarizzazione incapace di capire i problemi ma solo di schierarsi, nell’elettricità delle reazioni segnate dall’epidermide e così povere di cuore e di ragione? E la pace non ci deve chiedere qualcosa? Non dobbiamo accogliere bambini ucraini per offrirgli una vacanza? Non dobbiamo fare qualcosa che non abbiamo fatto? Cosa deve scoppiare per svegliarci? Cosa succede se diventiamo – e avviene molto più facilmente di ciò che pensiamo, in quella vera differenza che indica Papa Francesco – indietristi e non innamorati? Negli indietristi vince l’idea di amministrare solamente, conservando quello che si ha, condizionati da queste attività delle quali, però, rischiamo di dimenticare la motivazione, non sapendo mettere sempre la persona al centro, non come utente ma per quello che è. Ci sono troppe disuguaglianze. Se non le vediamo non vuol dire che non ci sono ma che ci siamo ormai abituati! E se le vediamo e non facciamo niente significa soltanto non che sono troppe complesse ma che ci siamo rassegnati! I dati Caritas più recenti ricordano che sempre più persone che lavorano si rivolgono agli sportelli per chiedere un aiuto. È il caso dei cosiddetti working poor. Persone che lavorano ma che non riescono a sostenere la loro famiglia a causa di stipendi ingiusti, di sfruttamento, di contratti precari. Così non possono accedere alla scuola, alle cure sanitarie, alla vita culturale e sociale delle nostre città. Non a tutti i lavoratori è riconosciuta la loro dignità di persone, secondo il principio dell’uguaglianza sociale. Si diffondono idee contrarie alla dottrina sociale della Chiesa, secondo le quali i poveri sono tali perché se la sono cercata, oppure si pensa che le disuguaglianze siano normali e che basterebbe un po’ di filantropia per aggiustare i problemi. Se poi diventano teorie economiche, che sanno pure qual è il prezzo delle formule, diventa geometria che non ha niente a che fare con la dottrina sociale. La Chiesa è una madre, che unisce cuore, mani, mente e chiede di realizzare la giustizia sociale, di mettere tutti nelle condizioni di poter partecipare alla vita e di aver accesso ai beni fondamentali per l’esistenza. Non fate diventare il vostro un movimento di lavoratori garantiti, che difendono il loro privilegio e non sentono più l’urgenza di garantire tutti. È un’illusione che pensare a sé, magari con nuovi corporativismi, ci assicuri qualcosa e poi, se avanza, ci preoccupiamo degli altri. Se ci sono ingiustizie dobbiamo temere tutti! Apriamoci a chi è nel bisogno a chi chiede di essere accompagnato, a chi ha bisogno di cura. Fatevi paladini di giustizia sociale, soprattutto con una politica che rischia di dimenticare questo principio e toglie tutele anziché assicurarle.

Un secondo fenomeno che si è acuito nel mondo del lavoro negli ultimi mesi, soprattutto dopo la pandemia, è quello delle dimissioni. Le analisi controverse ci dicono comunque dell’insoddisfazione di molti nei confronti del lavoro, tanto da spingerli a lasciare il sicuro per percorrere vie incerte. Sono i giovani ad essere particolarmente sensibili. Non si accontentano di un lavoro qualunque, ma chiedono di poter coltivare le loro passioni e che la professione li coinvolga in un progetto di vita ampio. Spesso, però, ciò significa precariato. La fedeltà al contratto non è più l’unico riferimento, ma si chiede la fedeltà ad una vocazione, alla possibilità di realizzare i propri sogni. Rispetto al passato, dove il lavoro rischiava di divenire il tutto, i giovani sperano, giustamente, che l’attività professionale sia una dimensione accanto alle altre: la famiglia, le passioni, le amicizie, l’amore. Ne deriva un secondo mandato per il vostro movimento: siate sentinelle che custodiscono le diverse dimensioni del lavoro, che non è riducibile a quella economica. Se, infatti, si lavora per guadagnarsi il pane e avere di che vivere, questo non può essere l’unico orizzonte. Si lavora anche per esprimere se stessi, per crescere nelle relazioni, per condividere doni e competenze, per migliorare il mondo in cui viviamo (cfr. FT 162). Perché buttare la vita in una quotidianità senza senso? Perché alzarsi al mattino e fare sacrifici se questi non generano qualcosa di veramente importante? Conta, eccome, la qualità del lavoro! Il fenomeno delle dimissioni ce lo sta richiamando con urgenza. Possiamo metterci in ascolto e accompagnare la formazione professionale di ogni lavoratore con riferimenti valoriali e di senso.

La terza sfida che proviene dai cambiamenti in corso è quella tecnologica. Molti temono che l’intelligenza artificiale (AI) sottragga numerosi posti di lavoro e che ci sia una rivoluzione così grande da mettere a soqquadro l’attuale impianto di contratti e di metodo di lavoro. La tecnologia sta cambiando molte cose, se non altro sta scongelando il tempo e lo spazio del lavoro. Si creano nuove opportunità, ma si richiedono una differente formazione e capacità di adattamento. Attraverso l’AI si possono sollevare i lavoratori da mansioni faticose e pericolose, ma si possono aprire forme ingiuste di controllo. È possibile che la tirannia degli algoritmi riduca di nuovo l’uomo in schiavitù, pensandolo come ingranaggio di produzione, così occorre introdurre una nuova riflessione etica, che il padre francescano Paolo Benanti definisce «algoretica». All’impatto dell’AI sulle relazioni e sulla pace Papa Francesco ha dedicato il messaggio del 1° gennaio per la Giornata mondiale della pace, che vi invito a riprendere. Le tecnologie non possono neppure essere a vantaggio di pochi, a scapito dell’inclusione e dell’equità, e non devono farci dimenticare l’esigenza di trasparenza e di sicurezza circa la dignità delle persone.

Il vostro movimento potrebbe assumere da questa trasformazione un impegno educativo perché non ci si rifugi negli opposti: la paura della tecnologia (tecnofobia) o l’illusione che la tecnologia risolva da sé tutte le questioni. In realtà, abbiamo bisogno di pensare queste trasformazioni in termini di comunità e di valori. Il lavoro rimane il cuore della vita umana: la centralità della persona, propria della dottrina sociale, è un apporto affinché non si arrivi a pensare all’inutilità del lavoro o a vedere la persona come una pedina da muovere nello scacchiere del lavoro.

La differenza la fa la passione! Senza passione non c’è lavoro. Senza passione non c’è vita sociale. Senza passione non c’è comunità. Aiutate la comunità cristiana a considerare l’esperienza lavorativa come una ricchezza. Non appiattitevi ideologicamente dentro a schieramenti politici, ma aiutate la politica ad ascoltare la realtà. Non è questo l’amore politico che ci è richiesto? Ma per coltivare le passioni bisogna nutrirle con l’ispirazione della fede e con tanta umiltà, difendendole dall’appassionarsi ai ruoli, al protagonismo personale e non a quello dell’associazione, ai risultati e non a cosa viviamo e trasmettiamo. C’è un di più che proviene dal mondo dello spirito e dalla cultura, che la politica non riesce a intercettare e qui noi credenti sappiamo fare la differenza. Di questo siamo competenti. Questo annunciamo. Al servizio dei poveri e degli ultimi, in favore della dignità di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice.

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