Vi ringrazio di aver accolto il mio invito a questo momento di riflessione.
Il vostro apporto è importante per l’attività dell’Istituto
Veritatis Splendor [IVS]. Esso infatti consiste nell’indicare le
linee di ricerca.
Il mio intervento si propone solamente di introdurre la vostra riflessione.
Lo faccio dal punto di vista del pastore attento alla condizione del popolo
cristiano e alla sua vocazione missionaria.
L’esperienza più profonda e coinvolgente vissuta dalla Chiesa
in questo momento è stata certamente la morte di Giovanni Paolo II e
l’elezione di Benedetto XVI. è stata la successione petrina.
è compito della Chiesa ricevere ora nella profondità della sua
vita quotidiana l’eredità spirituale di Giovanni Paolo II, nella
docile disponibilità alla guida di Benedetto XVI. La mia riflessione
si inserisce anche in questo contesto.
1.Ho letto attentamente e meditato il discorso di Sua S. Benedetto XVI all’Assemblea
generale della CEI: è una sorta di Lettera Enciclica alla Chiesa in
Italia. è da esso che prendo spunto ed ispirazione.
Nella mia prima Nota Pastorale ho individuato nella rigenerazione del soggetto
cristiano il compito fondamentale della nostra Chiesa. Nel citato discorso
del S. Padre, si sottolinea la necessità che «in Cristo sia individuata
la misura del vero umanesimo, per la coscienza delle persone come per gli assetti
della vita sociale». Ogni giorno più vedo che questo è la
questione centrale: quale misura l’uomo, intendo l’uomo concreto
in carne ed ossa, assume nell’interpretazione di se stesso, nell’elaborazione
delle risposte alle sue domande, nelle scelte della sua libertà ? Fin
dalla sua prima enciclica, Giovanni Paolo II aveva affermato: «L’uomo
che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati,
parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio
essere – deve … avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire,
entrare in lui con tutto se stesso» [Lett. Enc. Redemptor hominis 10,1;
EE 8/28]. Ed ora Benedetto XVI parla di «individuare in Cristo la misura
del vero umanesimo», indicando anche i due luoghi fondamentali in cui
questa individuazione deve avvenire: la coscienza delle persone e gli assetti
della vita sociale.
Penso che la debolezza di cui non raramente soffre oggi il soggetto cristiano,
la fragilità spirituale soprattutto dei giovani, siano dovute in primo
luogo ad una grave incapacità di giudizio, e quindi di conoscere la
realtà alla luce della fede. è riferendosi ai giovani che Benedetto
XVI ricorre ancora una volta al testo paolino: «sballottati dalle onde
e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» [Ef. 4,14].
La ricostruzione di una vera capacità di giudizio nel soggetto cristiano
esige anche un grande impegno di riflessione nella Chiesa. A quest’opera
di ricostruzione che compete in primo luogo ai pastori della Chiesa, è necessaria
la riflessione condotta da coloro che si dedicano quotidianamente alla … “fatica
del concetto”. è in questa luce che comprendete il senso
profondo di quella subalternanza della ricerca alla formazione nell’IVS,
di cui parlo frequentemente.
2.Vorrei ora sottoporre alla vostra attenzione un tentativo di diagnosi di
quell’infermità di giudizio di cui parlavo poc’anzi: per
essere aiutati a capire – noi Chiesa di Bologna – e a svolgere
il nostro servizio pastorale.
L’ipotesi diagnostica che propongo è, brevemente, la seguente: la
debolezza o (perfino) l’incapacità di giudizio del soggetto
cristiano è dovuta alla debolezza o (perfino) all’incapacità dello
stesso soggetto a rispondere alle sfide culturali fondamentali che gli sono
rivolte.
Prima di passare alla breve esposizione del contenuto di questa ipotesi, basta
solo premettere che l’aggettivo “culturale”, o meglio che
il termine “cultura” in questo contesto denota l’assetto
che si intende dare alla propria esistenza, il modo con cui la persona si colloca
nella realtà ed in rapporto con essa.
Ciò premesso, a me sembra che nel momento in cui il credente cerca
di assestarsi alla luce della fede dentro alla realtà , appunto di “inculturare” la
sua fede, si trova a dover rispondere a tre fondamentali sfide: la sfida del
relativismo, la sfida dell’amoralismo, la sfida dell’individualismo.
Le prime due riguardano più direttamente il primo luogo in cui secondo
Benedetto XVI deve avvenire l’individuazione di Cristo come misura del
vero umanesimo, la coscienza delle persone; la terza riguarda più direttamente
il secondo luogo, gli assetti della vita sociale.
Non è necessario che entri molto dettagliatamente nella descrizione
di quella triplice sfida; voi ne conoscete bene i contenuti. Mi limito semplicemente
a dire che cosa essenzialmente intendo.
La sfida del relativismo è la proposta di esistere rinunciando
a quella ricerca della verità , che genera tutta la vita dello spirito; è la
proposta di esistere, meglio di verificare l’ipotesi di una possibilità di
vivere «etsi veritas non daretur». Mi permetto di ricordarvi un
testo di Tommaso, che potrebbe essere una chiave profondamente interpretativa
della sfida di cui stiamo parlando: «res naturales, ex quibus intellectus
noster scientiam accipit, mensurant intellectum nostrum, ut dicitur x Metaph
[com 9], sed sunt mensuratae ab intellectu divino, in quo sunt omnia creata,
sicut omnia articificialia in intellectu artificis. Sic ergo intellectus divinus
est mensurans non mensuratus; res autem naturalis, mensurans et mensurata;
sed intellectus noster est mensuratus, non mensurans quidem res naturales,
sed artificiales tantum» [Qq. Dd. de Veritate q.1, a.2]. Le due regioni
della realtà che Tommaso denota come “res naturales” – “res
artificiales”, e nei confronti delle quali in relazione diversa si pone
la ragione umana – mensurata/mensurans – , sono ridotte ad una
sola; anche la “regione umana”: l’uomo prodotto dell’uomo
e quindi l’uomo misura dell’uomo.
La portata di questa visione la si coglie interamente quando portiamo la nostra
attenzione sulla verità circa la quale l’uomo nutre non interessi
penultimi, ma un interesse ultimo: la verità circa il bene della sua
persona, la verità morale. è la seconda sfida con cui
oggi il credente è confrontato: la sfida dell'amoralità . è la
sfida di una proposta di vita, costruita da una libertà compresa e vissuta
come autodipendenza pura, ossia come potere di determinare la verità circa
il bene della persona e dunque come potere di costituire la sua [della persona]
propria natura. Ho parlato di amoralità in un senso preciso. Nel senso
che l’affermazione secondo la quale «esistono atti che, per se
stessi ed in se stessi indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente
illeciti» [Es. Ap. Reconciliatio et penitentia 17; EV 9/1123], non è fondata,
dal momento che la condizione sufficiente per determinare tutte le regole dell’agire
in un dato gruppo o società è esclusivamente il patto delle parti
interessate. Consensus facit veritatem de bono/malo. La seconda sfida cui oggi
il credente è confrontato è la proposta di vivere «tamquam
si bonum non daretur».
L’ultima riflessione ci ha condotto dentro alla terza sfida fondamentale
con cui il credente oggi è confrontato, quella che ho chiamato “sfida
dell’individualismo”. è possibile, è cioè pensabile
un sociale umano originario, che preceda cioè ogni contrattazione sociale,
se non esiste un bene comune e quindi una verità circa il bene comune?
Non credo. Ora quale sociale umano è praticabile se non esistono relazioni
originarie fra le persone umane? Un sociale esclusivamente contrattato e quindi
frutto di opposte esigenze, nessuna delle quali ha la possibilità di
richiamarsi ad una verità circa il bene superiore ad ogni individuo
coinvolto nella contrattazione ed inscritta nella mente di ogni individuo;
superior superiori meo et intimior intimo meo, come direbbe Agostino. è in
questo contesto che si pone oggi il problema più grave a riguardo del
diritto: come esso nasce e come deve essere pensato e prodotto perché esso
sia veicolo di giustizia e non privilegio di coloro che hanno il potere di
stabilirlo?
Non procedo oltre nella determinazione di queste tre sfide perché sono
a voi ben note. Concludo questo punto dicendo che la registrazione più urgente
oggi delle tre suddette sfide, e delle domande che esse implicano, è la
registrazione biopolitica. Gli esempi che mostrano questa urgenza non mancano
3.Ritorniamo all’ipotesi diagnostica da cui sono partito, secondo la
quale la debolezza o perfino l’incapacità di giudizio del soggetto
cristiano è dovuta alla debolezza o perfino all’incapacità di
rispondere alle tre sfide culturali che ho cercato sommariamente di descrivere.
Vorrei ora proseguire facendomi la domanda seguente e per me pastore più urgente:
come aiutare il soggetto cristiano ad uscire da questa condizione e quindi
quale è l’apporto che la ricerca scientifica dell’IVS può darci
per venire in aiuto alla Chiesa di Bologna?
Penso che ci siano delle pseudo-soluzioni a questo problema, che hanno spesso
il volto [mascherato!] di vere e proprie fughe dalla realtà ardua in
cui viviamo. Mi limito solo ad accennarle, poiché non è questo
il luogo in cui parlare di questo argomento, che ha un carattere più spiccatamente
pastorale.
Una prima pseudo-soluzione è l’evasione dal confronto vero e
serio con queste sfide. Un’evasione che assume genericamente il volto
del fideismo, del rifiuto della dimensione veritativa della fede cristiana. è una
vera e propria indisponibilità , non necessariamente intenzionale, al
confronto serio e rigoroso sul piano propriamente culturale. è l’evasione
in una fede solamente esclamata e non interrogata, solamente affermata e non
pensata.
La seconda pseudo-soluzione, specularmente contraria alla precedente, è la
soluzione prassistica. Essa consiste nel pensare e praticare un (o pseudo-)
confronto consistente solo nell’impegno sociale e/o politico. è questa
una delle insidie più presenti nelle proposte formative fatte oggi alle
giovani generazioni, pensare che la loro formazione consista principalmente
ed esclusivamente nell’impegnarli a fare qualche esperienza di volontariato.
La mia proposta parte da un presupposto sul quale vado da tempo meditando. è il
seguente: nei momenti di più grave crisi spirituale che un popolo attraversa,
la scelta prioritaria è la scelta educativa. S. Benedetto in un momento
di grave crisi, cioè di transizione culturale, ha inventato una schola
divini servitii, che corrisponde al monastero benedettino. Ha cioè inventato
un luogo, una dimora dove potesse nascere un uomo nuovo ed una nuova umanità .
Novità che consiste nella capacità di compiere l’opus Dei,
nel duplice senso: la divina liturgia e l’umano lavoro, che costituiscono
il contenuto del servizio che l’uomo rende a Dio. Ma non voglio continuare
con riflessioni storiche, per le quali non ho una preparazione adeguata; vorrei
piuttosto brevemente esplicitare il contenuto della mia proposta.
Forse ci può aiutare nell’evitare generici appelli, tenere presente
che la proposta suddetta si attua, si deve attuare nel campo del [rapporto]
privato e nel campo del pubblico. Sono cosciente io per primo che la formulazione
della distinzione non è delle più felici.
Secondo una certezza di fede esiste impressa nell’uomo l’immagine
di Dio che niente e nessuno potrà mai cancellare; l’idea tommasiana – in
larga misura persa nella sua stessa scuola – di una partecipazione della
nostra ragione alla stessa sapienza divina è centrale nella proposta
che vado sostenendo. Ambedue le affermazioni, di fede e di ragione, ci suggeriscono
che l’educazione di un soggetto cristiano robusto non può non
consistere in una pedagogia del “maestro interiore” che vedo formulata
stupendamente in un verso di K. Woitila: «Ma se c’è in me
la verità – deve esplodere/ non posso rifiutarla, rifiuterei me
stesso». è qui fondamentale quell’«in me».
Voglio dire che esiste nell’uomo una presenza, a modo di indicazioni
originarie, che è compito di ogni vera paternità rendere consapevole,
per rendere capace ogni uomo di interpretare quelle inclinazioni. L’analisi
che Agostino fa del desiderio di beatitudine che è nel cuore umano, è al
riguardo esemplare ed insuperabile.
In questo contesto il vostro apporto ci è assolutamente necessario,
da un duplice punto di vista. Positivamente aiutandoci in questa lettura dell’humanum
attraverso la costruzione teoreticamente consistente di un antropologia adeguata.
Negativamente, dimostrando l’inconsistenza, alla luce della ragione,
di ogni forma di riduzionismo antropologico, di ogni forma del «nient’altro
che…» [l’uomo = non è nient’altro che …].
Non è necessario che io vi mostri quali sono oggi le principali forme
di riduzionismo.
Ma questo non è tutto. Questa proposta non può non avere anche
una dimensione pubblica.
Nel discorso già citato rivolto da Benedetto XVI all’Assemblea
generale della CEI si individua una certa forma di razionalità come
la principale insidia alla presenza dell’avvenimento cristiano nella
nostra vita, nella vita del nostro popolo. Forse lo scontro a livello pubblico è in
questi termini. è necessario generare uomini capaci di giudizio, come
ho detto prima. Ma questa generazione non basterebbe se non fosse accompagnata
da un confronto pubblico fra le due forze fondamentali che hanno plasmato la
modernità occidentale: la fede cristiana e la ragione funzionale di
cui parla il S. Padre. è questo il vostro compito fondamentale, o comunque
uno dei vostri compiti fondamentali. è dal confronto di quelle due forze
che in larga misura dipende il destino dell’Occidente. è necessario
che questo confronto non sia più rimandato.
Lo vedo necessario soprattutto in due ambiti che sono strettamente connessi:
nell’ambito della bioetica e biopolitica; nell’ambito della progettazione
propriamente sociale.
La sintesi di questa duplice attenzione la trovo espressa mirabilmente in
una riflessione di R. Guardini: «Cosa accadrà quando prenderemo
bruscamente coscienza delle formule razionali, quando ci troveremo davanti
al prevalere degli imperativi della tecnica? La vita ormai è inquadrata
in un sistema di macchine. Essa si difende, aspira all’aria libera e
cerca un rifugio al sicuro. Ma che giovamento trae da questa lotta? In un tale
sistema, la vita può rimanere vivente?».
Forse la preoccupazione che oggi ci preme più urgentemente è proprio
quella che la vita rimanga vivente, e che l’uomo sia affermato nella
sua verità intera.
Nella relazione tenuta al VI Forum del Progetto Culturale della CEI dello
scorso 3 dicembre 2004, il filosofo R. Brague affermava che il XXI secolo sarà il
secolo di un’aspra contesa tra l’essere e il nulla: «il problema
centrale non è altro che l’esistenza dell’uomo sulla terra».
Lo scontro fondamentale non è fra civiltà e ancor meno fra le
religioni o fra popoli diversi che coabitino: è sull’uomo e sul
suo futuro.