Messa alla Certosa per i defunti

Ogni volta che passiamo questo confine, tra la città presente dei vivi e questa città dei morti, città del nostro passato ma anche del futuro, misuriamo il nostro limite. È il limite del tempo, dei giorni che dobbiamo imparare a calcolare, della fragilità che segna la nostra vita. Lo tendiamo sempre a rimuovere, purtroppo anche fisicamente, in quel nichilismo distruttivo e onnipotente che disperde la vita anche nella sua presenza fisica. Lo rimuoviamo per presunzione ma anche per un peso troppo grande, perché non troviamo risposte facili e la nostra condizione è oggettivamente disperata. Un poeta russo lo esprimeva così: “Vieni, Signore, immenso il dolore ma ancora non siamo stanchi di sperare” (Osip E. Mandelstam).

Un grande latinista di Bologna, Traina, morto recentemente, lasciò queste due poesie, da pubblicare solo dopo la sua scomparsa: “Dio di mia madre, Dio della mia infanzia, la tua luce si è spenta alle mie spalle e non rischiara più la via che scendo verso la Notte”. E in un’altra, con una professione di fede al contrario (ma Dio legge e capisce sempre), scrisse: “Ti chiedo una sola grazia, Signore: esisti”. “Quando sarò davanti a te, Signore, se non perdonerai chi non si è unito al coro degli osanna, forse perdonerai chi ha confessato, Signore, di soffrire la tua assenza”. Pasolini si descriveva così: “Sono “bloccato”, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio”.

Ecco, l’uomo si misura sempre con il suo limite, invece di fare finta che non esista, di rimandare la consapevolezza. Rimuoverlo o fare finta che non esista è proprio il peccato originale: farsi Dio. Invece sono i piccoli, quelli che sentono il suo amore e a questo si affidano, che comprendono la sua alleanza. Tutti siamo sfidati dall’assenza, dal dover credere all’amore quando sembra venirci tolto o alla luce quando siamo nel buio. È il grido che Gesù stesso fa suo. “Perché mi hai abbandonato?”. Non basta dire Signore Signore, ma bisogna essere giusti, perché sono loro che saranno chiamati benedetti, non per chissà quale grande decisione ma perché hanno dato da mangiare e da bere, sono andati a visitarlo ricordando che era malato, amandolo più delle proprie paure e impegni. Pensiamo, un po’ come il fratello maggiore della parabola, che se c’è salvezza per tutti che senso ha allora lavorare sempre nella casa del padre? La misericordia è sempre tanto più grande ed è per tutti senza merito. Confrontarci con essa – perché il nostro è un Dio innamorato e pieno di misericordia per tutti – ci cambia e se non la capiamo, piangendo come abbiamo sempre fatto tutti troppo tardi, se ne facciamo motivo di orgoglio e non di umiltà, semplicemente non la capiremo.

Ma Dio non smetterà mai di avere misericordia per questo, perché non è mai retributiva. È pieno di amore. Il vero problema è che possiamo corrisponderlo soltanto amando, come possiamo. Ma proprio perché amore non smettiamo di cercare di farlo, il meglio che possiamo! Quando questo avviene si aprono le porte della casa del Signore. Altrimenti la porta sarà sempre troppo stretta, o ci sentiremo in diritto di passare, mentre lui dirà semplicemente “non vi conosco”. Ecco, attraversare questa frontiera tra l’oggi e il domani ci aiuta a perdere i tanti affanni di Marta. Ricordiamo tutti i defunti, che sentiamo nostri.

Questo luogo ci insegna finalmente a liberarci da tante distinzioni, distanze, paure. Tra gli altri ricordiamo i tanti che non abbiamo potuto accompagnare a causa del virus, quelli che stanno morendo nelle guerre insensate. E fare memoria dei defunti ci insegna sempre ad amare i vivi. Qualche volta uno rischia di occuparsi di chi non c’è più e di dimenticare chi c’è ancora, mentre è chi non c’è più che ci insegnato ad allargare il nostro cuore e ad amare chi incontriamo oggi. Stare con Gesù, sepolto anche lui come i nostri cari, ci aiuta a trovare quello che non ci sarà mai tolto. E non è qualcosa che troveremo. Lo viviamo già oggi. Ecco la bellezza dell’essere cristiani. Non crediamo perché abbiamo tutto o abbiamo tutte le prove.

Crediamo nel suo amore, perché Gesù ricostruisce quel legame di amore pieno tra Dio e ognuno di noi. Solo amore. E la nostra fede è abbandonarci a questo amore più forte del male, che abbiamo incontrato e che se seguiamo i nostri affanni continua a manifestarsi oggi.  Ecco come il cardinale Martini rispondeva alla domanda sul perché della morte, evidentemente inaccettabile, impietosa, ingiusta soprattutto quando colpisce i piccoli. “Ho detto qualche volta che per molti anni mi sono lamentato così col Signore: tu hai creato il mondo, ci hai fatto doni bellissimi, sei morto per noi ma non hai abolito la morte. Che cosa ti costava eliminarla? Bastava che tu dicessi: muoio io per tutti; e tutti sarebbero entrati nell’aldilà su una passerella d’oro. La morte, in realtà, é molto necessaria, proprio perché ci permette di realizzare quell’abbandono di fede che é veramente assoluto, totale, senza rete, senza nessuna uscita di sicurezza. Se non ci fosse la morte non saremmo mai costretti a compiere un atto di completa consegna di noi stessi a Dio; con la morte siamo obbligati a fidarci incodizionalmente di Lui.” Come nell’amore.

Per questo ricordiamo che Gesù non è venuto a darci una regola, un codice da rispettare, ma a farci sentire il suo amore e ad insegnarci a non avere paura di amare. E Lui é il più grande maestro perché l’Amore senza fine e il Vangelo sono una proposta per amare e vengono dall’amore. Non ci dice, come tanti maestri della nostra stagione, “Sii te stesso, ad ogni costo”. Gesù dice: “Seguimi, rimani con me”. E chi rimane con Gesù trova se stesso, come Maria, che mettendosi ai piedi di Gesù rinuncia agli affanni che riempiono la vita ma svuotano il cuore, trova per chi vivere e la parte che non ci sarà tolta. Dopo la morte non troviamo noi stessi, ma Dio e quindi la pienezza della nostra vita, tutta. Non troviamo solo l’anima, ma il corpo, cioè tutto quello che noi siamo e siamo stati, tutto amato da Dio.

Viviamo questo nella comunione tra noi e con tutti. La solidarietà reciproca è essenziale in questo mondo e sarà piena in cielo dove capiremo senza diaframmi che amore è solo dono. Non è possibile celebrare una festa da soli! Il cielo é la pienezza della nostra vita ma nella comunione, quella che viviamo con Gesù e tra di noi. Oggi e in cielo la comunità non celebra se stessa ma l’amore di Dio che ci rende una cosa sola. “E così per sempre saremo con il Signore “(1 Ts 4,17). Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. La parte che non ci sarà tolta è la gioia, la beatitudine. Non servono il dovere, i meriti, la perfezione che non raggiungiamo mai e che nessuno ci chiede. Dio cerca solo la gioia di essere per noi e noi suoi, senza possesso, solo per amore. E basta. È questa la parte che nessuno ci potrà mai togliere perché non finisce.

Bologna, chiesa di San Girolamo della Certosa
02/11/2022
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