Messa dell’Epifania a San Michele in Bosco per l’Istituto Rizzoli

I Magi sono cercatori di speranza, di senso, di futuro. Quando ci scontriamo con il male, siamo immersi nel terribile buio dell’incertezza e della sofferenza, è più facile perdere la speranza. Il contrario di questa è il fatalismo, pensare che non si possa far nulla, vedere solo come va a finire, rassegnarsi perché tutto appare inutile e velleitario. Qui al Rizzoli voi avete dei veri e propri lottatori di speranza, che non si accontentano, perché vogliono guarire, recuperare quello che hanno perduto, non farsi vincere dal male. Certo, sappiamo che non si può sempre guarire e che qualche volta “non c’è nulla da fare”. Ma la speranza è che tutti siano sempre curati, accompagnati, e che in questa cura sperimentino la protezione, la vicinanza che è più forte del male. Tutti abbiamo bisogno della speranza. A volte la stessa disperazione è un grido per essere aiutati, per vedere la luce, per uscire dal male. La speranza, però, non significa affatto illusione, ma combattere sempre il male sapendo che non è l’ultima parola. La cura è sempre vittoria sul male che isola e che fa pensare che non valga la pena.

La cura fa sentire amati e preziosi, dona sicurezza anche quando non c’è nulla da fare. La speranza, lo sappiamo, richiede pazienza, mentre noi vogliamo vedere subito i frutti, spesso pensando che tutto debba essere facile, senza impegno e sacrificio.  I Magi affrontano un cammino non facile. Non si fermano alle prime inevitabili difficoltà. Vogliono vedere il Re, colui che ci fa diventare suoi, che ci fa sentire figli, che ci protegge, e al quale appartenere. Siamo tutti amaramente costretti a misurarci con la fragilità della nostra vita, che spesso cancelliamo o vogliamo dimenticare perché ci riempie di turbamento, che interpretiamo ma non sappiamo risolvere perché non bastano mai le interpretazioni e non basta capire per avere la forza per affrontarla. Abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci aiuti a farlo, che ci ami e ci insegni ad amare. Ecco la scelta di Gesù, che condivide e fa sue le nostre sofferenze, perché in queste non manchino mai la sua vicinanza e il suo aiuto. Erode fa intuire felicità immediate, quelle del consumismo, del benessere, che il materialismo pratico assicura, tanto che finiscono per diventare più importanti le cose delle persone, e che cerchiamo per dare valore alla vita. La vita trova vita donandola al prossimo, non vivendo per sé. In questo anno del Giubileo della Speranza siamo chiamati tutti «ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio» (SNC 10) e per gli ammalati. «Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono.

Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili». La luce di Gesù accende i nostri cuori di speranza e ci chiede di essere noi stessi speranza per il prossimo. «Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera». Ognuno di voi, con la professionalità, con la cura, con il riguardo che è guardare due volte e con tanto rispetto, ciascuno nelle varie responsabilità, tutte importanti, è segno di speranza in maniera concreta, umile, cioè vera, gratuita, senza supponenza e interesse. La speranza ci permette di misurare il tempo che scorre, che si fa improvvisamente breve. Ci insegna a contare i nostri giorni, spesso anche a dargli valore e a non consumarli per quello che non conta. Infatti «Non corriamo verso un punto cieco o un baratro oscuro ma andiamo verso l’incontro con il Signore della gloria». E la gloria di essere amati e di amarci apre gli occhi del cuore, ci fa accorgere e vedere la Sua presenza buona e protettiva, che spesso disprezzavano.

La domanda vera, drammatica, che chiede risposte è “Cosa sarà dunque di noi dopo la morte, quando la speranza finisce?” (DV).  «Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: “Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te. Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti”». Questo inizia già oggi. Dio si mostra condividendo tutta la nostra fragilità. Abbiamo bisogno non di «un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi”».

«La nostra stessa sofferenza si unisce a quella di Cristo fino sulla croce, perché quando diciamo che la grazia ci permette di superare tutte le distanze, ciò significa anche che Cristo, quando soffriva, si univa a tutte le sofferenze dei suoi discepoli nel corso della storia. Così, se soffriamo, possiamo provare la consolazione interiore di sapere che Cristo stesso soffre con noi. Se lo amiamo, lo consoliamo come possiamo e come faremmo con il nostro migliore amico, ne usciamo consolati» (DN 161). La sua richiesta è l’amore. «Quando il cuore credente lo scopre, la risposta che scaturisce spontaneamente non è un’onerosa ricerca di sacrifici o il mero adempimento di un pesante dovere, ma è una questione d’amore: “Ricevetti dal mio Dio grazie straordinarie del suo Amore; mi sentii spinta dal desiderio di ricambiarlo e di rendergli amore per amore”» (DN 166).

Per questo non ripassiamo più da Erode, che ci circuisce e ci fa sentire addirittura in debito verso di lui! Gesù che si mostra uomo ci mostra come ogni essere umano è tanto più “degno” di rispetto e di amore quanto più è debole, misero e sofferente. Gesù debole e fragile ci libera dalla forza e dalla violenza, dall’affermazione individualistica di sé. Dio affida la sua onnipotenza donandoci la sua forza tutta umana e tutta divina di amore, che ci rende capaci di fare le sue cose grandi. La speranza non è più lontana, ma nel cuore. I nostri occhi hanno visto la salvezza e possiamo amare. Diventiamo noi stessi sue stelle. «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 5,16). I cristiani risplendono «come astri nel mondo» (Fil 2,15).

Diventiamo raggianti come chi è amato e ama. Conviene sempre e sempre ne vale la pena. Gesù, nostra speranza, non delude, ci aiuta ad affrontare la notte, ad aiutare nella speranza perché tanti vedano la Sua luce.

Bologna, chiesa di San Michele in Bosco
06/01/2025
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