Messa in occasione della presenza della reliquie delle Stimmate di San Francesco

La festa della Trinità ci aiuta a contemplare il mistero di Dio comunione. Dio è amore e non si esaurisce in se stesso. Dio non è egocentrico! Non vive per sé! E’ amore tra tre persone e cerca le persone fatte a sua immagine, libere di amare. Anche noi non siamo noi stessi, non facciamo gli interessi dell’io se ci mettiamo al centro, se prendiamo invece di donare, possediamo invece di amare. Dio ci vuole, come chi ama, con sé. E’ il contrario dell’individualismo, che persuade a pensarsi da soli, tanto che cerchiamo di stare bene da soli e prendiamo dell’altro solo quello che serve e solo se ci serve, dimenticando che amare è pensarsi assieme e quindi dare all’altro tutto se stesso e desiderare quello che serve a lui! L’individualismo produce indifferenza, fa alzare muri perché mette sempre sulla difensiva, impedisce di riconoscere nel prossimo il fratello, al massimo lo rende oggetto di attenzione e non qualcuno da amare. L’amore cerca amore e solo l’amore unisce le tre persone della Trinità che sono diverse eppure una cosa sola. Non lo capiamo mai pienamente. E non è detto che dobbiamo spiegare, interpretare tutto, come un’idea in fondo pigra, spaventata ci porta a fare. Solo l’amore spiega tutto, perché noi possiamo portare il peso tanto da capire tutto e non basterebbe comunque capire: dobbiamo amare! Chi ama diventa l’uno parte dell’altro, capisce di essere parte dello stesso tutto e non una monade che per essere se stessa deve distinguersi, distanziarsi, confrontarsi, scontrarsi. Noi saremo un cuore solo e un’anima sola perché Dio vuole che anche noi siamo nella sua casa di amore pieno, quella dove tutto ciò che è mio è tuo. Per questo Dio vuole che nessuno vada perduto perché è come perdere un pezzo di sé! Quando capiamo questo legame di amore per cui Lui rimane in noi e noi in Lui, non abbiamo paura di amare e di farci amare. Solo così comprendiamo le stimmate di San Francesco. Egli sentì profondamente, e in tutto se stesso, l’amore di Gesù per la sua vita, tanto che prega di fare ciò che lui vuole e di volere sempre quello che piace a Lui e di essere rapito dall’ardente e dolce forza del suo amore, perché dice: “Io muoia per amore dell’amore tuo come tu ti sei degnato morire per amore dell’amore mio”. Le stimmate sono il portare questo amore nel cuore tanto che diventano anche nel suo corpo. Francesco “da allora, non riesce più a trattenere le lacrime e piange anche ad alta voce la passione di Cristo, che gli sta sempre davanti agli occhi. Riempie di gemiti le vie, rifiutando di essere consolato al ricordo delle piaghe di Cristo. Incontrò un giorno un suo intimo amico, ed avendogli manifestato la causa del dolore, subito anche questi proruppe in lacrime amare”. Contemplare un amore così grande ci aiuta a misurare la nostra tiepidezza, l’indifferenza di fronte alle tante stimmate del corpo di Cristo impresse per amore nostro e che incontriamo nel corpo dei suoi fratelli più piccoli. La logica di “a me che importa”, di credere di stare bene perché scappiamo, ci chiude e ci indurisce. Invece quando preghiamo facciamo nostra la sofferenza dei tanti fratelli più piccoli di Gesù e vogliamo che le piaghe siano impresse nel cuore nostro. Per Francesco le stimmate iniziano quando “si fissò nella sua anima santa la compassione del Crocifisso e, come si può piamente ritenere, le venerande stimmate della Passione, quantunque non ancora nella carne, gli si impressero profondamente nel cuore”. E noi? Quando ascoltiamo o incontriamo un fratello più piccolo di Gesù ci commuoviamo su di lui? Proviamo pietà e ci leghiamo oppure ci accontentiamo di una emozione, facciamo zapping moltiplicando sensazioni e accontentandoci di queste? Gesù con la sua sofferenza fa sentire ogni nostra sofferenza come la sua e Lui condivide, porta con sé, la nostra croce. Le stimmate di Gesù sono le nostre e in esse vediamo la condivisione di Gesù con il nostro dolore. E quelle ferite che la resurrezione non cancella diventano la certezza che dove c’è il male ci sarà l’amore. Francesco si sentiva inondato da straordinaria dolcezza nella contemplazione, acceso da più viva fiamma di desideri celesti, ricolmo di più ricche elargizioni divine. Il mondo è un enorme ospedale da campo. Abbiamo bisogno di piangere e di sentire le nostre lacrime di sofferenza consolate da Gesù. Così il pianto si trasforma in gioia. Senza piangere, senza portare nel nostro cuore il dolore per la sofferenza, non sappiamo vedere la gioia della resurrezione. Il cristiano non ama la sofferenza, ma ama chi soffre. E soprattutto come Maria non scappa, non pensa di stare bene salvando se stesso, anzi, non può stare lontano dalla croce! Ecco la nostra guarigione: il suo amore e quello dei fratelli ci aiutano. Dio nella prova, nelle prove, non ci abbandona. Sentirlo ci fa capire la nostra vera forza e ci libera dalla tentazione di cercare altre forze. E’ santo togliere la sofferenza! E’ santo amare e difendere la vita perché ha sempre senso se amata e pericolosamente lo perde quando non lo è. La volontà di Dio è stare a mensa insieme a noi, nell’unica casa del Padre. Questa è la nostra guarigione e forza, in un mondo che follemente scappa dal limite, dalla sofferenza non perché non ha coraggio, ma perché ama poco e crede poco all’amore.

Sant’Antonio, discepolo di San Francesco, invitava: “Siamo dunque misericordiosi, imitando le gru. Tutte si prendono cura di quelle stanche, in modo che se qualcuna viene meno, tutte si uniscono, sostengono quelle stanche finché con il riposo ricuperano le forze. E anche quando sono in terra, la loro cura non diminuisce: si ripartiscono i turni di guardia, in modo che una ogni dieci sia sempre sveglia. Siamo dunque misericordiosi come le gru: posti in un più alto osservatorio della vita, preoccupiamoci per noi e per gli altri; facciamo da guida a chi non conosce la strada; con la voce della predicazione stimoliamo i pigri e gli indolenti; diamo il cambio nella fatica, perché senza alternare il riposo alla fatica non si resiste a lungo; carichiamoci sulle spalle i deboli e gli infermi perché non vengano meno lungo la via; siamo vigilanti nell’orazione e nella contemplazione del Signore; teniamo strettamente tra le dita la povertà del Signore, la sua umiltà e l’amarezza della sua passione; e se qualcosa di immondo tentasse di insinuarsi in noi, subito gridiamo aiuto, e soprattutto fuggiamo i pipistrelli, vale a dire la cieca vanità del mondo”. Ecco la beatitudine di chi soffre.

Bologna, Cattedrale
12/06/2022
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