Messa in Rito Zairese

È una gioia grande per noi tutti celebrare la Santa Messa nel rito romano zairese. È del Congo, ma in realtà esprime la cultura e la spiritualità di tutta l’Africa. La prima volta che assistetti ad una liturgia in Africa rimasi colpito dalla coralità della celebrazione che si esprimeva nel canto, partecipazione personale e di tutta la comunità. C’era molta gioia, pur trovandosi il paese in un momento drammatico, ridotto alla fame dalla guerra e dai disastri economici.

Non si vedeva la fine e il presente era segnato da molta sofferenza e angoscia. Eppure c’era nella Liturgia molta sorprendente gioia. Davvero “ti basta la mia grazia” e si sentiva il senso della Provvidenza di Dio, cioè del fiducioso affidarsi a Lui, molto diverso dal fatalismo ma anche dal protagonismo che conta solo sulle proprie opere così diffuso in Occidente. No: ci basta la sua grazia. In genere in Africa le celebrazioni durano a lungo, impensabili per chi pensa che non ha mai tempo e poi ne sciupa tantissimo, che non sa calcolarlo tanto da credere di averne sempre a disposizione.

È una gioia grande condividere oggi la bellezza del canto, della danza che esprime il coinvolgimento di tutta la persona, della coralità delle risposte e che ci aiuta a comprendere come la vera partecipazione dell’assemblea non è il protagonismo individuale ma quello della intera comunità, di quel coro che il Signore raduna e rende armonico. Il rito esprime le radici profonde della cultura africana e di come il seme del Vangelo ha in questi anni dato frutti nella Chiesa del continente.

Ci vogliamo così unire in maniera particolare a tutte le comunità che pregano in Africa, nella comunione che rende la diversità ricchezza. Stasera desidero sia un momento privilegiato per unirci ai genitori e ai parenti dei tanti figli dell’Africa che vivono con noi, fratelli nel Signore Gesù e nella Chiesa, fratelli in Cristo, nutriti tutti all’unica mensa che ci rende davvero uguali, mendicanti dello stesso pane di amore e di vita.

E “se condividiamo il pane del cielo, come non condividere quello della terra”, sentendoci noi tutti accolti in questa casa per fare sentire a casa e partecipi dell’unica mensa ovunque saremo. Oggi contempliamo la bellezza della Chiesa africana e dell’Africa tutta, ci rallegriamo di questa, ne siamo fieri anche perché ci aiuta a sapere riconoscere il dono che sempre l’altro rappresenta. Molti di voi siete venuti qui da lontano, molto lontano. Vi siete messi in cammino alla ricerca di futuro. Non è stato facile lasciare. Altri in realtà siete nati qui eppure spesso guardati come se foste lontani.

In questa casa della Chiesa di Bologna siamo tutti accolti, non siamo mai estranei, ma figli attesi e amati. Qui nessuno è straniero perché tutti resi familiari da Gesù. Vivete con la gioia dei fratelli e delle sorelle, con la responsabilità di esserlo, con l’orgoglio di fare parte di questa famiglia, non come estranei che si sentono ospiti, ma liberi da orgoglio perché tutto è grazia, dono e ogni dono è servizio. Intorno all’altare del Signore spezziamo quanto abbiamo di più prezioso: la sua Parola e il suo Corpo, quel pane degli angeli che gusteremo nel banchetto del cielo, già oggi cibo di solo amore, dono che fa sentire amati e che libera dalla paura di amare. Cerchiamo tutti di esserne degni, vivendo da fratelli e sorelle sempre, generati in un unico popolo, di ogni lingua, razza, tribù e nazione.

Ci aiuta, come sempre, la Parola di Dio che ci ricorda come è, quando siamo deboli, che siamo forti. Ci basta la sua grazia e non ci vergogniamo della nostra debolezza, perché non è una condanna come spesso giudica il mondo, provocando ad affermare la forza, la superiorità della propria capacità. Vuol dire anche che la forza del mondo è debolezza davanti a Dio e che la forza va contro l’uomo stesso, rendendolo quello che non è.

Gli abitanti di Nazareth si sentivano forti, tanto da giudicare lo stesso Gesù, da restare distanti. Forza, a ben vedere, ridicola perché in realtà gli stessi abitanti di Nazareth che si sentono importanti erano considerati marginali e periferici. “Da Nazaret può forse venire qualcosa di buono?”, si diceva. Se ci chiudiamo nel nostro piccolo, l’altro lo riduco solo al mio giudizio, cioè pregiudizio, ed è un dono che non so riconoscere. La nostra forza è quella che per il mondo è debolezza: amare per primi, amare senza condizioni, non scappare dalle difficoltà, perché anche in esse vediamo il dono del suo amore. Siamo un’unica etnia che libera dal sangue e dalle contrapposizioni tra gruppi. Siamo una vera famiglia i cui legami sono più importanti e veri degli stessi legami familiari. Siamo un unico popolo che abita un’unica casa comune. Anche per questo il Vangelo ci chiede di essere “Fratelli tutti” e ci invita a cercare ovunque la giustizia e la fratellanza.

Il saluto liturgico iniziale ci ha ricordato che «Siamo riuniti come sulla montagna di Dio. Noi siamo davanti al sole che non può essere fissato. Uniamoci a tutti i discepoli di Cristo, che hanno lasciato questa terra e “si riposano dalle loro fatiche” presso Dio». Ricordiamo i vostri cari lontani, spesso in condizioni non facili, motivo di preoccupazione. Tra questi vorrei stasera ricordare i figli dell’Africa che ancora oggi sono scomparsi nel mare Mediterraneo. Li affidiamo al Signore e crediamo che non si può mai mettere in discussione il principio per cui la vita va salvata, sempre, dal suo inizio alla sua fine, soprattutto quando la possibilità è affidata a noi. È umanità e imperativo evangelico. E mai questa umanità sia messa in discussione.

Non vogliamo essere come gli abitanti di Nazareth. Gesù apre il piccolo al grande, fa entrare la sapienza di Dio nel nostro piccolo. Se lo seguiamo il mio trova il nostro, l’io il noi, il locale l’universale. Invece, se giudichiamo con presunzione e chiusura siamo destinati a immiserirci, a diventare sterili perché la vita si conserva e quindi finisce. A Nazareth non accadde niente di nuovo. L’orizzonte della vita è grande e lo capiamo nel piccolo, ma sempre aprendosi al grande orizzonte del mondo, nostra casa. È la rivoluzione copernicana di Gesù: l’io non più al centro, ma amato dal noi che è Dio.  Nazareth non trova importanza chiudendosi ma sentendosi parte di una famiglia che non è un’etnia, perché appartiene ad un popolo grande, di ogni razza e nazione. L’incredulità nasce da una sicurezza, che diventa orgoglio: pensano di conoscere già Gesù, lo riducono al loro piccolo mondo invece di allargare questo al mondo.

A Nazareth i “familiari” di Gesù non credono che la vita possa cambiare per la sapienza che viene dallo spirito. È proprio la sfida che abbiamo noi in questi mesi. Se pensiamo che la pandemia sia stata solo un incidente, una parentesi da chiudere quanto prima per riprendere la vita di sempre, non cambierà nulla e, come dice Papa Francesco nella “Fratelli Tutti” «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica» (FT 35). E questa sera ricordiamo anche le tante pandemie che da tanto si abbattono sull’Africa, come la violenza, la fame, la guerra, le malattie.

C’è un legame profondo che ci unisce. Il sogno che Papa Francesco indica è che «alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”… Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato». Lasciamoci conquistare dalla sapienza del suo spirito perché il mondo possa rinascere e la pandemia non passi invano e diventi, invece, il “Fratelli tutti” che Gesù ha annunciato. Da questa sera con ancora più convinzione e speranza con l’Africa.

Bologna, Cattedrale
04/07/2021
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