Trent’anni. “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”(Ps 90,12) chiede il salmista, forse accorgendosi della vanità del suo vivere, così facilmente dimentico, istintivo, consumista di esperienze e di tempo. I giorni scorrono, come dice Giobbe (Giobbe 7, 6), “più veloci d’una spola”, e senza saggezza finiamo per essere come chi esita sempre e che l’Apostolo Giacomo paragona “all’onda del mare, mossa e agitata dal vento” che non riceve qualcosa dal Signore perché è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni. Se il cuore non è saggio è facilmente tardo, incredulo, chiuso, pauroso, duro. Contare i giorni non è ovviamente una questione di agenda. Quello lo facciamo spesso in maniera bulimica, riempiendo i silenzi, i vuoti, con le mille sollecitazioni che ci coinvolgono, assorbono il tempo, arrivando ad occuparlo interamente tanto da temere il silenzio, l’attesa, la riflessione. Contare i giorni è conservare la memoria per imparare a guardare il futuro e a scegliere nel presente. Contare i nostri giorni significa la consapevolezza di quello che siamo, entrare nella storia per capire la nostra esistenza, per scegliere e non restare indecisi, portati da ogni vento oppure presi dall’accumulare senza porci la domanda vera: “tutto questo di chi sarà?”.
Oggi ricordiamo con immutata tenerezza tre nostri fratelli, morti tragicamente nel pieno dei loro anni, seminaristi che si preparavano a servire la Chiesa come presbiteri, figli della nostra Chiesa di Bologna e di Cesena. Essi vivono nella pienezza del tempo e ci aiutano a misurare la vita, a usare bene i nostri giorni così incredibilmente e dolorosamente brevi. Gli anni sono davvero un soffio e, in realtà, come Giobbe, schiacciati dalla nostra onnipotenza e ridotti nelle macerie del cuore, ci interroghiamo su “che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione, lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova? (Giobbe 17, 17-18). Se siamo umili possiamo magnificare anche noi, come Maria, la misericordia di Dio (Ps 39,5- 7), come il salmista che esclama contemplando il cielo “quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”. La celebrazione dell’Assunta ci aiuta a comprendere il cammino anche quando sembra interrotto definitivamente. Non è, allora, per intristirci che misuriamo la nostra assoluta fragilità, anzi farlo ci aiuta a scrollarci l’amarezza o l’irresponsabilità che non ci rendono sapienti della vita.
Abbiamo bisogno di Dio. Il profeta ci descrive la protezione attraverso il segno del tau sulla fronte. Il Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, il principio e la fine (Ap 21,6; 22,13). Francesco ne aveva fatto un segno distintivo, tanto che firmava le sue lettere, lo disegnava sulle pareti delle celle dei suoi frati (come si vede nel convento di Fonte Colombo, nella valle Reatina), segno della venerazione per la croce perché solo nella croce di Cristo è la salvezza di ogni uomo. È la protezione che fa sentire amati e solo questo spiega la perfetta letizia di San Francesco, altrimenti umanamente incomprensibile. È possibile se siamo pieni del suo amore, perché la protezione non è essere invulnerabili o un benessere inattaccabile, ma amati, legati a Dio. La nostra vita è salva perché amata, non perché tutto va bene ma perché c’è Lui e noi siamo con Lui.
Il ricordo dei tratti fisici delle persone care inevitabilmente si stempera nella luce, ma non si perde. Dio è luce, ma è sempre corpo, presenza, non un indefinito e ineffabile stato di benessere. Gesù, inoltre, stabilisce un legame stretto tra le nostre scelte sulla terra e quelle del cielo. Niente andrà perduto di quello che abbiamo conosciuto e anche di quello che è rimasto nel segreto di Dio. Leghiamoci a Gesù e tra di noi perché solo così possiamo slegarci dalla catena più insidiosa e resistente che è quella dell’egoismo, dell’odio, con la vendetta che questo nutre e prepara. Gesù invita ad accordarci tra di noi, a pensarci insieme, a mettere il cuore insieme. È la comunione, quel legame che ci unisce misteriosamente ma efficacemente con Lui, che è in mezzo a noi, e tra noi, superando tutte le distanze. È il filo d’oro dell’anima, il legame che nessuno può spezzare.
Carlo, Paolo ed Alberto. Misurandoci con loro, con gli anni misteriosamente e dolorosamente perduti, o forse dobbiamo dire nascosti ai nostri occhi, capiamo anche – non solo don Massimo ma tutti noi – che in realtà siamo dei sopravvissuti che godono del dono del tempo per trovare risposta alla nostra vita, per spenderla anche per loro. Capiamo come possiamo legarci a questa Madre che ci genera a figli e ci apre la via del cielo, a questa famiglia, vivendo legami affettivi, di amore, per essere come Gesù che si è legato a noi per slegarci dal male. Cosa ci hanno lasciato? L’entusiasmo per il sacerdozio, tutto intero. Oggi siamo noi che gli chiediamo qualcosa: aiutate noi e tanti a non avere paura di donare la vita nel servizio al Signore, a proteggere e aiutare questa nostra madre Chiesa e a servirlo nei fratelli, specialmente i più poveri. Il cardinale Biffi non nascose il suo e nostro turbamento, allora ancora più drammatico, oggi più profondo e meditato. Gesù parla spesso del nostro turbamento e ci aiuta, parlandone, a riconoscerlo, a non spaventarci quando ci afferra, a non far finta cercando un coraggio che non ci è richiesto, ma sempre a sentire l’amore che ci protegge. Se lo nascondiamo ne veniamo travolti. Siamo e saremo turbati, ma anche sempre rassicurati. Chiediamo a loro che altri si lascino “incantare dal Signore Gesù, il grande fascinatore dei cuori”. Continuiamo noi tutti “con un’accresciuta volontà di donazione”, anche a nome di Carlo e di Paolo, il cammino verso il sacerdozio, anche il nostro sacerdozio che abbiamo potuto vivere e che non smettiamo di capire. Ci aiutano loro “adesso che contemplano il mondo invisibile e vero, adesso che capiscono ciò che noi facciamo ancora fatica a capire, a rispondere a questo amore esigente in ogni ora della nostra vita, nell’ora della gioia e nell’ora del dolore, nell’ora del sorriso e nell’ora delle lacrime”.
Don Massimo, tempo dopo, si recò sul luogo del terribile incidente per piantarvi una croce. Vide il nastro srotolato di una cassetta e lo prese con sé, recuperandolo. Conteneva un inno che, chissà, stavano ascoltando, preghiera di noi pellegrini di vita. “Non c’è al mondo chi mi ami/Non c’è stato mai nessuno/In fondo alla mia vita, come te/È con te la mia partita/Come sabbia fra le dita/Scorrono i miei giorni insieme a te/Inquietudine, o malinconia/Non c’è posto per loro in casa mia/Sempre nuovo è il tuo modo di/Inventare il gioco del tempo per me/Nascerà dentro me/Sul silenzio che abita qui/Fiorirà un canto che/Mai nessuno ha cantato per te/Se la strada si fa dura /Come posso aver paura?/Nel buio della notte ci sei tu/ Se mi assale la fatica/Di cancellare la sconfitta/Dietro ogni ferita sei ancora tu/È una cosa che non mi spiego mai/Cosa ho fatto perché tu scegliessi me?/Cosa mai dirò quando mi vedrai/Quando dai confini del mondo verrai?/Nascerà dentro me/Sul silenzio che abita qui/Fiorirà un canto che/Mai nessuno ha cantato per te/Nascerà dentro me/Sul silenzio che abita qui/Fiorirà un canto che/Mai nessuno ha cantato per te/Nascerà dentro me/Sul silenzio che abita qui/Fiorirà un canto che/Mai nessuno ha cantato per te”. Oggi cantate la gloria a Dio che innalza gli umili e li prende con sé nella casa del Padre.
La luce dei nostri fratelli risplende nel buio perché sono nella luce di Gesù che ha vinto la morte. La luce dei nostri fratelli ci aiuti a comunicarla ai tanti che incontreremo nel cammino.