Messa per l’Afghanistan

L’ Eucaristia depone sull’altare il mondo perché il Verbo che si fa carne e parola ci mette in comunione con il mondo. È per noi cristiani il momento più intimo, profondo, spirituale e materiale, legame di amore tra noi e il nostro Dio che genera ogni cosa. Il nostro è un Dio di amore infinito, che supera le distinzioni e i limiti, come in cielo dove non ci sono frontiere.

Dio ci ha fatti diversi, ma ci vuole insieme. Gesù fa sua la nostra sofferenza e ci insegna a dare parole al dolore che segna la vita. La compassione, infatti, è il sentimento di Dio. Soffre della nostra sofferenza come chi ama. Non si può e non si deve amare la sofferenza, ma chi ama la affronta per l’amato. Chi ama poco o ama di più il proprio benessere, scappa dal dolore, lo anestetizza, salva se stesso, lascia solo il prossimo e resta senza prossimo, non si accorge di quello che succede perché non ha compassione, non si rende conto, ripete parole facili o interpretazioni irritanti o inutili.

Certo, quando la sofferenza investe tutti comprendiamo allora come siamo tutti sulla stessa barca e quanto abbiamo bisogno degli altri, perché non ci si salva da soli e nella vita chi vuole conservare la sua vita la perde. Ecco perché quando diciamo “c’è pace e sicurezza!”, cioè quando ci illudiamo di essere sani e di poterlo restare anche “in un mondo malato”, siamo in realtà molto più vulnerabili al male! Non vogliamo anestetizzare il dolore o banalmente passare oltre, ma trovare risposte, sconfiggerlo con la vera medicina che è l’amore e quindi la solidarietà che da questo deriva, che lo traduce in scelte, azioni, progetti, responsabilità.

Si ama a parole, ma queste devono diventare fatti, anche perché il male persuade e agisce molto! Il male non dorme, non resta mai tranquillo e ci illude, facendo credere di potercene stare in pace mentre lui non si dà pace perché vuole spegnere la vita, renderla insipida, farla sprecare a chi è ricco e privarla di valore e significato ai poveri. Oggi sentiamo così importante per noi il monito dell’apostolo di non farci prendere dal sonno. Noi troviamo la pace solo quando siamo svegli perché amiamo, perché l’amore è luce, siamo amati e “non apparteniamo alla notte, né alle tenebre”. Non dormiamo dunque, perché non possiamo prendere sonno dopo tanta sofferenza. Non dormiamo e siamo sobri perché aspettiamo qualcuno, sappiamo che qualcuno deve venire e ci prepariamo per Lui: è Gesù e i suoi fratelli più piccoli che hanno fame e sete.

Non dormiamo perché non vogliamo tirare a campare o osservare con sufficienza e distacco come va a finire. Non si dorme solo chiudendo gli occhi, prendendo qualche narcotico di benessere. Il sonno è anche vedere e non fare nulla, vedere e farsi sempre e solo un selfie perché in fondo l’importante è la mia immagine, non il prossimo. Ci addormentiamo riempiendoci di tanti frammenti digitali che si sovrappongono ma che non giungono al cuore, come uno zapping che cerca tante immagini ma non si ferma con nessuna perché nessuna raggiunge il cuore. Il sonno diventa l’impotenza di non decidere o credere che c’è sempre tempo. In realtà così siamo noi che viviamo fuori dal tempo, proprio come chi dorme.

Chi soffre, infatti, non ha tempo, non vede l‘ora che finisca, non vuole perdere tempo, chiede delle scelte, urla aiuto come quei fratelli che si aggrappano all’aereo o che salgono su un’imbarcazione qualsiasi, alcuni fisicamente tutti virtualmente, perché vedono partire l’unica possibilità. E non possono perderla. Lasciamoci ferire da quell’urlo. Facciamolo nostro. È nostro ed è per noi. Non potremo mai abituarci al dolore o farne motivo di discussione quando la sola discussione è su cosa è meglio fare per loro.

Affidiamo a Dio questa sera la tragedia senza fine dell’Afghanistan, storia di tanti dolori, sofferenza che dura da quaranta anni. Due generazioni. È un pezzo di quella mondiale perché ogni pezzo, anche piccolo, scarica nel mondo intero fiumi dell’inquinante veleno della violenza, dell’odio, del razzismo, della divisione. Non smettiamo di chiedere una soluzione che finalmente veda il dialogo prevalere. A che sono serviti questi vent’anni? È una domanda lacerante per tutti. Cerchiamo almeno di fare tesoro degli errori per trovare con intelligenza e determinazione soluzioni possibili e giuste che salvino la vita e permettano di viverla nella dignità e nel rispetto per ogni persona. Davvero la guerra non solo non guarisce ma anzi, al contrario, come dice Papa Francesco, “lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato” (FT 261).

Cosa possiamo fare? La pace è sempre artigiana e siamo chiamati tutti ad essere artigiani e tutti lo possiamo essere. E se non costruiamo pace cresce la divisione. Le piccole risposte rappresentano la scelta di non restare al buio, di accendere luci che indicano anche, a chi cerca per davvero la pace, qual è la direzione. Il totalitarismo talebano ci spinge ad avere consapevolezza e fiducia nella libertà e nell’umanesimo che viviamo e a condividere un dono che talvolta non comprendiamo appieno o addirittura rischiamo di sciupare. La preghiera è la prima cosa da fare. E possiamo farla con autorità, perché l’amore del Signore è più forte del male.

Preghiamo per quella persona che è l’Afghanistan, che non è padrone di sé, posseduto dal demone della violenza, della guerra, dell’umiliazione della persona, della mancanza dell’elementare attenzione e venerazione dell’altro, chiunque esso sia, perché sia liberato e restituito a se stesso. Dio vuole liberare gli uomini dalla violenza, da ogni spirito di divisione, compreso quello inodore dell’indifferenza. Cerchiamo risposte concrete, come corridoi umanitari o campi davvero protetti che permettano alle famiglie – donne, uomini e bambini – di avere una possibilità, e sicurezza, protezione. Altrimenti l’unica resta quella terribile e piena di Erode, piccoli e grandi, dei commercianti di carne umana. Senza luci di speranza c’è solo il buio terribile della disperazione. Non regaliamo i nostri fratelli ai trafficanti! Siamo ancora in tempo. E questo sia un impegno di tutta l’Europa se vuole essere degna dei suoi padri che l’hanno voluta unita e attenta ai diritti della persona e delle minoranze, ovunque e per chiunque.

Vorrei ricordare, anche per misurare la storia di sofferenza di quella persona che si chiama Afghanistan, uno dei tanti suoi figli che per raggiungere il sogno rischiò e non ce l’ha fatta. Accadeva nel 2008. Si chiamava Zaher Rezai, ragazzo hazara di Mazar-i Sharif. Aveva 17 anni. Scriveva poesie. Forse le ultime le aveva composte aspettando di aggrapparsi sotto la pancia del camion che l’ha involontariamente ucciso quando, sfinito, è caduto ed è stato travolto. Venne trovato il suo taccuino che portava con sé. Pagine preziose.

Tutto il suo cuore. C’era scritto: “Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori, io stesso sono diventato fiore, non vado in cerca di un fiore qualsiasi”. Troppi giardini sono rimasti chiusi a persone che non sono ladri di fiori ma sono essi stessi un fiore bellissimo e prezioso come un ragazzo di 17 anni. “Io che sono così assetato e stanco forse non arriverò fino all’acqua del mare. Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai passare la primavera”. Che non accada di nuovo. Anche in questo caso i cinque pani e due pesci davanti a una folla enorme non giustificano il pensare a sé, perché solo se condivisi non andranno perduti e condivisi rendono sazi, ma non pochi, tutti.

“Promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera”. È certamente l’impegno di Dio. Sia anche il nostro. Amen, sia così.

 

 

Bologna, parrocchia di S.Antonio di Savena
31/08/2021
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