Festa di Padre Marella

La comunione è dono di Dio, di cui abbiamo sempre tanto e tutti bisogno, perché se manca o diventa simbolica non viviamo il sacramento del fratello, molto concreto, quello del lavarsi i piedi l’uno con l’altro. È un dono grande, che ci rende forti quando siamo deboli, umili perché ci aiuta a pensarci per gli altri e a farlo con amore.

È conforto nell’incertezza e consolazione nello smarrimento. I santi, in cielo e sulla terra, sono stelle che orientano in una grandezza che a volte è davvero troppo grande. In questa comunione ricordiamo Padre Gabriele che celebra in cielo questa ricorrenza per lui e per noi così cara. La comunione ci coinvolge anche senza comprenderlo perché siamo parte, come abbiamo ascoltato dall’apostolo, del “suo corpo che è la Chiesa”, nel quale ognuno di noi ha una missione affidataci da Dio, missione originale che aiuta tutti a conoscere il mistero di Dio che è Cristo nel quale “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza”.

Il ruolo di ogni parte non è forse noto al resto e anche alla parte stessa, non è detto che lo capiamo e anche che gli altri lo capiscano, ma nella comunione sappiamo che aiutiamo il corpo, tutto. Ognuno con il suo dono, quindi ognuno importante proprio perché unito agli altri. La santità incoraggia a cercare la nostra santità, cioè quella missione unica che siamo ognuno di noi, con la nostra storia, doni, opportunità.

Oggi, nella prima memoria del beato Marella celebriamo tutti, con gioia condivisa perché le gioie di Dio sono sempre così, la sua cura per il prossimo, la fede totale in Cristo e l’attenzione alla strada, la preghiera e il servizio. Padre Marella è stato fratello e padre dei poveri, uomo di tanta cultura e di tanta umiltà, vicino a quelli che non sanno nemmeno parlare. Solo così si osserva pienamente la legge, altrimenti lontana dal prossimo e quindi da Dio stesso, tanto che come il fariseo della parabola si parla addosso, pensa sufficiente curare l’apparenza ma non la sostanza, giudica e non sa giudicarsi, ha timore della compassione e della misericordia come se queste confondessero la verità, della quale non comprende più lo spirito perché ridotta a lettera.

Padre Marella aveva continuato a portare il suo modo libero di vivere il Vangelo e l’umanesimo che da questo nasce anzitutto con i suoi studenti e poi con i suoi figli, i piccoli che sentiva suoi, per i quali è stato davvero un padre. Li aiutava a essere se stessi, li coinvolgeva senza imposizioni, li faceva sentire amati e per questo responsabili, perché non si può amare se non si è liberi.

I piccoli per lui non erano certo degli utenti, ma dei figli, liberi perché capaci di amare, non di farsi gli affari propri o di cercare l’interesse individuale. Non si può amare senza essere liberi. Anzi, nella città dei ragazzi s’imparava a occuparsi gli uni degli altri, perché solo questa è la vera via della libertà. Padre Marella non ripeteva una verità lontana e senza relazione con la vita, ma la verità viva di Cristo che viveva con la sua vita.

Non a caso partecipò e animò con Baroni e Gotti, che cercavano un nuovo rapporto tra Vangelo e vita, tra spirito e carità, il gruppo del vangelo bolognese che poi trasmigrò a poco a poco nelle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, unendo affetto reciproco e cura dei poveri per amore di Dio. Chiedeva con il suo cappello, ma in realtà donava tanto, come avviene sempre con i poveri. Non parlava direttamente di Gesù, ma comunicò a tanti un Gesù attraente e umano. Quasi lo incarnava.

E molti bolognesi donavano volentieri proprio perché l’amore non era una parola astratta ma volti, storie, sofferenze, quelle dei piccoli che metteva al centro della città e davanti ai cuori, spesso distratti, dei bolognesi. Tutti ricevevano tanta umanità, anche con un sottile e implicito rimprovero della vita condotta o delle cose che si potevano fare ma non si facevano. Proprio perché veniva da Lui era accettato tutto, anzi cercato appositamente. Non giudicava. Gesù non è venuto a giudicare ma a salvare, non è venuto a condannare ma a raggiungere tutti con la sua esigente e umanissima misericordia.

Come abbiamo ascoltato nel Vangelo, Padre Marella ha messo al centro della città e della nostra vita il povero, come quell’uomo dalla mano paralizzata. Metteva di fronte alla sofferenza, in modo concreto, come Gesù che ci interroga se è la stessa cosa salvare una vita o no e facendoci capire che fare o non fare è una scelta e che il pieno compimento della legge non è la perfezione, ma l’amore. Il suo sorriso era indimenticabile e penetrante.

Non dobbiamo tutti noi imparare a sorridere di più, trasmettendo amabilità, benevolenza, cercando il bene anche dove è difficile vederlo ma sapendo che c’è? Non è questo che faceva Gesù, trovandolo in un’adultera e in una peccatrice ed anche in Pietro che si fidava più della sua forza che della sua stessa parola? La sua è stata un’esistenza spesa non per sé ma per gli altri, per tutti ma partendo dai bambini, i più poveri e indifesi.

Coinvolgeva tutti nella preferenza di Cristo, quella dei suoi fratelli più piccoli, perché la Chiesa è di tutti ma particolarmente dei poveri, come affermava il suo compagno di classe Roncalli. E poi il suo atteggiamento ricordava a tutti che in realtà siamo poveri e che tutti abbiamo bisogno di essere rianimati e consolati. Cesare Sughi, giornalista di Bologna, umile e sensibile amico della città e al quale vorrei rendere omaggio, ricordava come aveva insegnato a vivere per gli altri e a prendere questa vita come un passaggio: “Noi siamo abituati a liquidare il religioso venuto dalle paludi venete di Pellestrina come un personaggio vagamente folcloristico, il proverbiale cappello zeppo di offerte con cui questuava davanti ai cinema e ai teatri o accanto alle botteghe di via Orefici. Ma don Olinto è anche uno studioso, un plurilaureato, un teologo, un traduttore dei testi di Giambattista Vico. È il sacerdote che sceglie di stare dalla parte degli ultimissimi, di opporre alla Bologna grassa e gaudente la folla degli orfani, degli sbandati, persino degli avanzi di galera”.

“È il santo di un popolo, un immigrato, un nomade del cristianesimo. Un senza fissa dimora che qui trovò casa”. Arrivava a dire che abbiamo “un Beato pop. Pop, si sa, vuol dire popolare nel senso della cultura. E qui, prima ancora del miracolo indispensabile per la beatificazione, c’è il primissimo miracolo compiuto da don Olinto, ossia la sintesi vertiginosa tra sapere e cura dei dimenticati, dei senza casa e senza famiglia, giovani soprattutto. Pensateci: per noi miseri don Marella è una speranza. Si può risorgere”.

Ricordava uno dei suoi alunni, insieme ai tanti detti di Padre Marella (“Prima bisogna dare e poi ricevere”, “La carità si fa e si tace”) il suo metodo: “Quando pensate di aver capito tutto avrete capito poco, perché l’intelligenza non è altro che un fiammifero acceso in un mare di tenebre, non ne illumina che una piccola parte. Tutto il resto è buio, tutto il resto è mistero, tutto il resto è Dio”. Ecco come restituiva forza e capacità ai tanti che avevano la mano paralizzata. Non ha avuto dubbi e la sua vita è stata l’insegnamento più convincente: non è affatto la stessa cosa fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla.

E se non lo capiamo vuol dire che siamo lontani da Dio e prigionieri dell’indifferenza. La legge di Dio è questa e tutto è piegato alla sua legge di amore. Aiutava ad essere se stessi, a diventare padroni di sé, come per l’uomo dalla mano paralizzata, a trovare lavoro, il mestiere che non è mai solo un problema occupazionale. È stato un padre, ha adottato i piccoli, sentiva la loro urgenza, chiedeva per loro, li ha amati ma li rendeva autonomi, perché amore non è mai possesso.  Guai a una Chiesa che riduce il rapporto con i fratelli più piccoli a erogazione di servizi, pur indispensabili, dimenticando che essi sono il Corpo di Gesù. Padre Marella chiedeva perché vedeva ciò di cui c’era bisogno e voleva trovare le risposte, non faceva qualcosa perché aveva trovato qualcosa! Faceva quello che serviva. Questo è un Padre.

Ci aiuta ad essere noi oggi la Chiesa del cappello di Padre Marella, posato sulle ginocchia in un gesto che era insieme offerta e benedizione, come scrive Emanuela Ghini. Chiedeva perché sapeva chiedere anzitutto a Dio, perché era un mendicante di amore. Alle nipoti aveva chiesto con fermezza: “Non lasciate mai la preghiera! La preghiera è il respiro dell’anima, l’elevazione del nostro spirito dalle cose umane alle cose divine, la nostra conversazione con Dio. La preghiera è il maggior conforto nelle tristezze, nella sofferenza, nelle angustie. Preghiamo per tutti: per i nostri cari, per coloro che ci hanno fatto del bene ed anche per coloro che ci hanno fatto del male. Preghiamo per gli infermi, per i sofferenti, per i peccatori, per tutti. Preghiamo per la Chiesa e per l’avvento del Regno di Cristo nel mondo intero. La preghiera è stata chiamata l’onnipotenza dell’uomo e l’impotenza di Dio, perché Iddio non sa resistere all’umile e costante invocazione”.

Sì preghiamo e ringraziamo, con e per Padre Marella, lui beato perché ha reso beati, perché ha servito i più piccoli, fonte di beatitudine, cioè di gioia e di amore.

San Lazzaro, Chiesa della Sacra Famiglia alla Città dei ragazzi
05/09/2021
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