Viviamo momenti di grande smarrimento, di inquietudine, una notte profonda e terribile. Siamo sfidati dalla violenza che, come sempre, alla fine non guarda in faccia nessuno e non rispetta certo i limiti che pensiamo noi. Come illudersi che sia così? Siamo turbati per la sua imprevedibilità, per la banalità del male, che arma la lingua e la rende, come avverte l’apostolo, un’arma. Turbati perché la violenza diventa un sistema di morte che cancella la dignità dell’altro e l’umanità nei cuori, anche quella dei sentimenti più normali. Vediamo i frutti del male, che crescono nell’accettazione rassegnata o fatalista di chi si accontenta che sia degli altri, basta che non lo raggiunga. I frutti del male crescono nell’ignoranza aggressiva e stolida, nelle parole gridate contro qualcuno, nel sentirsi in diritto di parlare male o di pensare di aver sempre tempo e opportunità. Poi il tempo finisce e le occasioni non tornano.
È sempre nel sonno che il seme del male cresce e si rivela drammaticamente nei frutti che colpiscono l’umanità. Papa Francesco, lo abbiamo ascoltato a Redipuglia, città che accoglie decine di migliaia di morti della Prima Guerra mondiale, di quella inutile strage che si ripete nelle sempre inutili stragi di oggi, ricordò a tutti che “la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano”, che la “la guerra è folle e rende folli”, perché è da folli non capire. Dobbiamo piangere. Come Gesù davanti alla città nella quale vedeva la propria distruzione. Passare da “a me che importa?” al pianto. Piangere per tutte le vittime della follia della guerra! “L’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto”. Questa Santa Settimana ci fa piangere per il Figlio dell’uomo, il mite e l’umile, l’amore che non smette di amare anche se il male vuole ucciderlo, aiutato da tanti “a me che importa”. Piangere per un dolore immenso, che si rivela tutto nelle lacrime di un bambino, nell’urlo di una mamma che ha perso il proprio figlio, nel turbamento di chi non ha più nulla, il proprio caro, la propria vita. Hanno perso tutto, hanno perso la casa e quello che avevano. Non sanno cosa sarà, non conoscono le loro prospettive e ultimamente, come ormai è noto in tutto il mondo, anche la fame ha cominciato ad attanagliarli. Cucinano una volta o due alla settimana e questo deve bastare per tutto il tempo. Mancano medicinali, manca tutto. Hanno perso ogni cosa, ma non hanno ancora perso la speranza. Preoccupano molto la mancanza di prospettive e la presenza di un odio profondo che chiude. Non dormire e niente spada. Non piangiamo su noi stessi!
Dobbiamo imparare a piangere sulla divisione, sui frutti amari della violenza, che domina le persone. Cosa significa per noi “a me importa?”. Essere artigiani di pace, in un mondo che corre al riarmo, che considera un’ingenuità rifiutare la spada per risolvere i conflitti e credere che il diritto, la composizione pacifica, possa disarmare i cuori e trovare le soluzioni giuste. “A me importa” significa essere artigiani di pace perché la pace ha bisogno di manutenzione. La pace non è mai per sempre, va difesa. E quanta poca manutenzione abbiamo fatto della pace! Sceglie di essere artigiano chi saluta, non guarda l’etichetta ma la persona, non accetta per sé ma neanche per gli altri l’offesa, la spada della lingua, il pregiudizio che uccide come quando diciamo “pazzo”. Il Papa lo ripete: occorre negoziare, e se lo facciamo pensando al bene di tutti potremo realizzare lo scopo comune. È nella prova che si rivela il nostro amore. I discepoli di Gesù scelgono di accogliere la vita, che va rispettata e curata amorevolmente. Dobbiamo liberare il cuore dal pessimismo, dalla superficialità, dall’egoismo che lo rendono mediocre e avvelenano i rapporti umani. Gesù vince il male, il negativo che ci arriva, ci indurisce e i pensieri diventano cupi. Artigiani di pace perché tutti possiamo fare qualcosa, non lasciare i problemi come sono oppure lasciarli ad altri, perché ogni storia umana è una storia sacra, irripetibile, meravigliosa se la guardiamo con amore. Nella Passione siamo tutti “attori” nel male come nel bene. Capiamo che non possiamo tirarci fuori. Il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. Il pianto deve aiutarci a pulire l’occhio, aiutarci a vedere il prossimo non in superficie, a capirne la fragilità anche quando non si fa aiutare e si sente grande e invulnerabile. Altrimenti le persone diventano oggetti, insignificanti o nemici, scambiabili, da consumare e possedere. Guardiamo con gli occhi di Gesù che piange, con quelli di Maria che ama e non lascia soli, con misericordia e tenerezza infinita. La Chiesa resiste alla guerra, perché madre che conosce il valore della vita. Perché sa, dopo secoli nella storia, che “ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”, come dice Francesco nella Fratelli tutti. Sentiamo grande orgoglio per la Chiesa che, in ogni tempo, proclama la pace come via del futuro del mondo, perché essa è sacramento dell’unità del genere umano.
In questi giorni non restiamo quelli di sempre, non pensiamo che sia inutile cambiare, ma facciamolo nel nostro piccolo. Stiamo con Gesù per farci cambiare da lui e troveremo anche la bellezza di una comunità di persone che ci proteggono e danno forza.