Omelia Messa per la XVIII Assemblea nazionale dell’Azione Cattolica.

La franchezza dell’apostolo è qualcosa di molto diverso dall’improvvisazione, che all’apparenza può essere scambiata come affabilità e immediatezza. L’apparenza si logora subito o produce modalità di legami digitali, quelli che non scaldano il cuore e creano illusione di relazioni. L’amore è altra cosa, non in remoto e unisce la vita, rivela il midollo non la scorza. La franchezza è frutto dell’amore, non è una facile risonanza, superficiale, che sembra vera proprio perché rapida, come le frasi ad effetto che vengono scambiate per veracità. La franchezza è frutto di un cuore che ama il Signore e per questo ama il prossimo.
Per parlare con franchezza dobbiamo cambiare il cuore, liberarlo da tutto ciò che lo indurisce, e dobbiamo farlo con il combattimento interiore, per liberarlo dalle convenienze individuali o di gruppo, da discorsi fatti per calcolo o opportunismo, dalla compiacenza o dall’esibizione che immiseriscono le nostre relazioni e non ci fanno incontrare il prossimo.

La franchezza viene dall’essere pieni del Vangelo, liberi dal conformismo del mondo, anche ecclesiastico, come le abitudini che senza lo Spirito pensano a difendere una lettera che però è morta. Finiremmo per rendere complicate le cose semplici, per seguire riti che sostituiscono la radicalità evangelica o prendere sul serio glosse che diventano più importanti della stessa Parola di Dio. Siamo chiamati alla franchezza, alla libertà dello Spirito, come Paolo e Barnaba che dissero di rivolgersi ai pagani. Non si fanno catturare dal loro mondo e indicano a questo di aprirsi, di guardare fuori. La Parola ci libera e non si lascia imprigionare, non diventa un rassicurante possesso, ma essendo Parola di amore ci spinge sempre a liberarci dalle paure e ad aprire il nostro cuore.

Qualcuno direbbe che lo Spirito ci chiede di “parlare con tutti”, di andare in periferia, di stare per strada dove non sai chi incontri perché sei raggiunto – se hai il cuore e gli occhi aperti – dai tanti pellegrini, mendicanti di vita, di senso, di compagnia, di un Altro che dia valore e significato al nostro camminare, che qualche volta è un vagare o un cammino a tentoni.

Il motivo dell’andare incontro ad altri non è dovuto ad una logica interna ma alla sofferenza del prossimo, le tenebre del mondo. “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”, abbiamo ascoltato. Il discepolo e la Chiesa non possono vivere per se stessi. Non hanno limiti, ma non per un impossibile attivismo, pericoloso e non richiesto, ma per amore, solo per amore. Ed è questo che non ha limiti e se li incontra li supera ma, ripeto, non per sforzo ma per amore. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo. Non c’è in giro molta gioia e questa spesso non ci porta fuori da un mondo segnato com’è da fondati e drammatici motivi di tristezza.

La gioia è tanto diversa dall’insulso benessere offerto in quantità da un mondo che cerca di stare bene e di dimenticare, evitando il confronto con la fragilità e quindi il reale, che pensa follemente di essere protetto dalle burrasche della vita. La gioia è solo nello Spirito, nel vivere e donare lo Spirito dell’amore, quello che scese e scende nella nostra vita, la forza dell’amore che fa compiere oggi, nella nostra generazione, gli stessi prodigi della prima.

La comunità del Signore – che poi chiamiamo associazione o altro, ma questa è – non vive per se stessa, ma per accendere la luce, perché è luce. Quando pensiamo ad altri sembra che tradiamo qualcuno, a qualcuno può sembrare di perdere la propria identità (così pensavano anche alcuni nella prima generazione). L’identità non la troviamo o non la difendiamo ad intra ma sempre ad extra, la perdiamo smettendo di essere lievito, sale della terra, luce del mondo, e mettendola sotto il moggio di un’affermazione chiusa che ha paura di incontrare, di illuminare tutta la stanza e quindi chi entra. Cosa non è nostro? Tutto è nostro ma solo se noi siamo di Cristo.

Ecco il senso delle “braccia aperte” che si aprono se la mente e il cuore sono aperti. Attenzione: aperti perché li abbiamo e li abbiamo pieni dell’amore di Cristo. Se ci lasciamo abbracciare da Dio, pecore perdute che si devono sempre far sollevare dal pastore, siamo come il figlio che ritrova se stesso proprio perché abbracciato dal padre.

Non basta rientrare in sé per essere se stessi. Non basta un po’ di consapevolezza individuale: occorrono una casa e un padre che ti riconosca e faccia sentire che ti occorre l’abbraccio, così materno, che restituisce la consapevolezza di chi siamo, fa sentire riconosciuti e amati perché accolti in una casa nella quale essere figli e non estranei. Nella casa del Signore viviamo pienamente responsabili perché lì “tutto ciò che è mio è tuo”. Non serve la misera e impoverente logica del “dammi quello che è mio” per essere se stessi, perché siamo noi, perché figli e figlie abbiamo la responsabilità di tutto. Non c’è altro da conoscere. «Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».

Vale anche per noi. In realtà siamo anche noi come Tommaso che cerca la vita e l’ha di fronte, pensa che occorra conoscere qualcosa di difficile ma deve soltanto abbandonarsi a quel Gesù e dire a lui, concreto com’è, “mio Signore e mio Dio”. Filippo ripete le parole che spesso erano state dette a Gesù. È proprio la mentalità comune! “Mostraci il Padre e ci basta”. Quante volte gli estranei avevano chiesto a Gesù segni per credere! E li avevano pure, perché tanti segni aveva compiuto e ha mostrato Gesù. Ma la fede non è essere convinti dal maestro che deve imporsi senza il nostro amore!

E l’amore è sempre un abbandono, un perdere il controllo di sé, perché amore è dono. Gesù dice a lui, e in fondo a tutti noi, con qualche evidente amarezza per chi ama e non viene capito nel suo amore, anzi frainteso: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre”. Sono le opere che possiamo compiere se crediamo in Lui.

Torno all’abbraccio. Siamo sulla stessa barca, non da estranei ma da fratelli! È il vostro ministero! Ne stiamo parlando, anche spinti dal cammino sinodale della Chiesa italiana e dai cambiamenti di questa e delle città degli uomini. Esercitiamo quel ministero che abbiamo già! Noi sentiamo e vediamo l’Azione Cattolica nella scia “di quegli uomini e donne che aiutavano l’apostolo Paolo nella evangelizzazione, faticando molto per il Signore” (Evangelizzazione e ministeri, 79). L’abbraccio è quello che ci unisce, ci fa sentire a casa e fa sentire casa, amati, riconosciuti, preziosi.

È quello che ci unisce, la nostra fraternità, che non è un accessorio e non si acquista con la tessera, ma con il cuore ed è opera del Signore. L’abbraccio ci unisce ai poveri, a quell’uomo mezzo morto che va sollevato e abbracciato per tirarlo su perché ritrovi se stesso e anche lui conosca il suo prossimo. Essere prossimo, farsi prossimo, ci fa scoprire il nostro prossimo. La solitudine – nelle varie stagioni della vita – è come un bandito che ne ruba metà. L’abbraccio diventa cammino assieme, dialogo, scoperta, formazione. E, infine, l’abbraccio unisce le persone, vince e libera dalla divisione e dall’inimicizia.

La pace è l’abbraccio dei fratelli che erano diventati nemici perché non si riconoscevano più in quello che pure sono sempre: fratelli. E l’abbraccio richiede architetti della pace, che sanno affrontare e capire la complessità della divisione, sanno essere nella confusa città degli uomini, comprese ovviamente le istituzioni, nella cultura, creatori di quel bene comune che se manca diventa solo privato. E il bene privato se non ha una finalità comune non ha senso e diventa solo proprietà e bene tolto al prossimo.

La via dell’abbraccio è la via della vita. Tanti cercano una casa e, in questa, anche il vero padrone di casa. Vogliono conoscere il Padre e lo hanno davanti se incontrano discepoli pieni del suo amore e se sentono nel loro l’abbraccio di Dio che non viene a condannare ma a salvare. L’abbraccio della misericordia realizza la “mistica di vivere insieme” e trasforma “questa marea un po’ caotica” “in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio”.

Nell’abbraccio “si confonde chi aiuta e chi è aiutato. Chi è il protagonista? Tutti e due, o, per meglio dire, l’abbraccio”. Alda Merini diceva che solo con l’abbraccio si è interi. L’abbraccio lo riceviamo ed è affidato a noi. Ringrazio Dio per il dono che l’Azione Cattolica rappresenta per tutta la Chiesa e per il nostro Paese e chiediamo, con l’intercessione dei molti vostri santi e sante, di essere luce, di andare verso i tanti che cercano l’abbraccio di Dio e hanno bisogno di pace e speranza.

 

Istituto Fraterna Domus, Sacrofano (Roma)
27/04/2024
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