Omelia nell’anniversario della morte del beato Livatino

In questi giorni il lezionario ci propone l’ascolto del libro di Giobbe. Descrive con tanta umanità l’uomo che si scontra con il male. Chi non si scontra con il male, che diventa così una pandemia perché sconvolge interamente la vita? Quando ci raggiunge capiamo che cambia tutto, che il mondo intero ci crolla addosso, tempesta che sommerge la vita, quel mondo che è ogni persona, mondo nel mondo e non isola che si chiude in sè! Tutti ci confrontiamo con il male. Spesso, intontiti dal benessere – che è una gran bene ma senza anima diventa ingannevole, deforma il cuore, non fa accorgere di sé e del prossimo – finiamo per non accorgerci del male: pigramente pensiamo di poterlo evitare, ci stupiamo che venga, siamo stoltamente sicuri che c’è sempre una soluzione per tutto. Insomma: “Andrà tutto bene!”. La pandemia, invece, ha rivelato la nostra fragilità, cioè quello che siamo per davvero, e lo ha fatto in maniera fisica imponendo la sua agenda a noi che pensavamo di decidere il nostro presente e il nostro futuro.

Giobbe non se la prende con Dio ma pone la domanda di ogni persona: “Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore?”. Perché? Che senso ha la vita quando tutto è vano, terribilmente insignificante perché inghiottita nel nonsenso della sofferenza e della morte? Questa domanda trova la risposta solo in Gesù: il male non è l’ultima parola e l’amore non può essere vinto perché è lui la vittoria. Per noi cristiani l’amore ha un nome e un corpo: Gesù, che ci aiuta a dare nome e corpo a tanti fratelli suoi e nostri e anche alla nostra stessa povera persona. Ecco, Gesù è la vittoria sul male. Per questo è Vangelo, una bellissima notizia, quella che la vita fragile aspetta per non essere travolta dalla tempesta. Non ci sottrae dalla tempesta, ma dalla fine! La vittoria, infatti, non avviene per qualche magia o potere sovraumano, ma proprio mediante quello più umano: l’amore. “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto”, cioè la sua morte in croce, il supplizio più infame previsto, condanna comminata da un tribunale, Gesù “prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”. Ecco la scelta, ferma, più forte delle paure e della tristezza: andare a Gerusalemme, affrontare il male, non ascoltare il “salva te stesso”. Gesù non ha nemici e non colpisce nessuno con la spada (davvero questo non ha niente da dire nelle nostre scelte concrete? Che cristiani siamo se pensiamo che la spada e le sue espressioni, dalla lingua alle micidiali armi nucleari, diventino strumenti ordinari e causa per morire noi stessi di spada, così come ammonisce Gesù?). Gesù non accetta i suoi discepoli che reagiscono al rifiuto proponendo un distruttivo e punitivo “fuoco che li divori”. Certi nostri commenti digitali ci fanno rassomigliare proprio ai discepoli: sembrano solo verbali ma in realtà seminano divisione, intossicano l’aria, introducono l’omologazione alla violenza che poi arma i cuori e fa uccidere o torturare un innocente, come fecero i tedeschi verso gli italiani, gli italiani verso gli etiopi o gli sloveni, i serbi e croati, e questi a loro volta verso gli italiani. Quando capiremo? Quanta violenza causata dall’odio, dall’ignoranza, dal pregiudizio, dalla condanna del prossimo ridotto a nemico, oggetto che, come Gesù, non ha più aspetto d’uomo! Gesù rimprovera i suoi discepoli. Perché non condanna? Per lasciare sempre il recupero, la dignità, il futuro. Lui non se la prende con qualcuno, se la prende con il male, che è l’unica guerra che dobbiamo combattere, dentro e fuori di noi, e che si vince solo con l’amore e per amore. La guerra cancella la verità e la giustizia. L’esercizio della giustizia può impedire la crescita della violenza e della guerra! Nessuno – nessuno – si salva da solo, ma combattendo il male con intelligenza, anche furbizia, senza rassegnazione o disillusione, curando le conseguenze, capendo e combattendo le cause. Non c’è resurrezione senza croce; non c’è gioia senza sacrificio perché l’amore affronta il male, lo chiama per nome, non lo evita, anzi non ha paura di evitarlo proprio perché ama. E se io amo qualcuno desidero proteggerlo da ciò che può minacciare la sua vita.

La croce non è l’ultima parola. Lo è per il mondo. Lo pensa il mondo. Lo pensano i mafiosi di ogni tempo e di ogni mafia, vigliacchi, forti solo dell’arma che impugnano, capaci di uccidere un indifeso e a tradimento, vigliacchi e mezzi uomini come lo sono i corrotti. L’ultima parola per chi salva se stesso è se stessa e lì finisce. L’ultima parola per chi dona la sua vita non finisce mai! L’io che salva se stesso per opportunismo o convenienza finisce. Il martire non è un coraggioso, ma un innamorato e per questo ama Gesù e il prossimo più di se stesso. Ecco la grandezza del beato Rosario Angelo Livatino. Giovane. Angelo anche nel nome, nell’aspetto e soprattutto nel cuore. Non accomoda, magari in maniera nascosta. Non cerca la propria convenienza. Non l’ha cercata nella vita, lavorando umilmente – che lavoro è quello superbo, contrario di quello umile, fatto solo per sè? Livatino non cercava alcuna notorietà o protagonismo. Non evitava i problemi e non li lasciava agli altri. Per questo è stato ucciso. Lo ha imparato da Gesù che sceglie di andare a Gerusalemme, di non starsene prudentemente ad aspettare, di non rimandare o far finta di non vedere. Livatino amava Gesù e chi ama Gesù non può amare la corruzione, il clientelismo, il modo mellifluo e obliquo di mettere davanti i propri interessi. La sua fede nel Signore era un motivo in più per esercitare la difficile giustizia umana, perché la giustizia del cielo in realtà aiuta ad essere imparziali sulla terra, onesti, senza tornaconto personale perché insegna ad amare. Livatino viveva senza enfasi, senza mai apparire, sempre rispettando gli imputati, univa giustizia con carità verso il prossimo specialmente se più debole. Avrà pensato anche lui “chi me lo fa fare?” e come spesso avviene, anche nella pubblica amministrazione, avrà detto “ho già fatto molto, gli altri non lo fanno, non dipende da me!”. Invece dipende sempre anche da ciascuno di noi.

“STD, sub tutela Dei” scriveva in molte pagine del suo diario. Sub tutela Dei significa essere liberi da altre tutele, da quelle insidiose, invisibili delle mafie o degli interessi di parte. La sua parte era la giustizia. Sub tutela Dei permette di essere giudici giusti, di vedere quello che serve, di esercitare il difficile discernimento, che tanta intelligenza e sentimento richiedono. Diceva Livatino che giustizia e carità combaciano, non soltanto nelle sfere ma anche nell’impulso virtuale e perfino nelle idealità. E aggiungeva: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili». Siamo credibili quando viviamo quello che diciamo, quando non ostentiamo la fede ma la mostriamo nelle scelte concrete. Credibili per la vita e non per le apparenze. E si vede quando c’è solo l’apparenza, che può essere anche ben curata, ma poi si rivela quello che abbiamo dentro. Un uomo credibile aiuta a credere. Giovanni Paolo II, come sappiamo, dopo l’incontro con i genitori di Rosario, in occasione della sua famosa visita in Sicilia nel 1993, lanciò il suo grido da ira di Dio: «Convertitevi, verrà un giorno il giudizio di Dio!».

Oggi sentiamo fortemente il bisogno di una giustizia credibile, di istituzioni forti perché credibili, che vincano tanta disillusione. Senza queste la nostra casa comune crolla. Ecco la lezione che oggi ci consegna Livatino, sempre con il garbo umile e semplice di persona che pensava la sua vita come un servizio. Se non serve, a cosa serve? Ci insegna a non arrendersi, a non mettersi al centro ma a servire, cioè mettere al centro l’amore per il prossimo, fino alla fine, senza guardare in faccia nessuno. Ci insegna l’amore per la giustizia che è amore per tutti. Ecco, questo è l’onore che vi spetta, cari operatori della giustizia. E, per certi versi, siamo tutti chiamati ad aiutarla. Giustizia e carità insieme, perché così diventa recupero di chi ha sbagliato e vera sicurezza per tutti. Credibile perché amante del vero, senza corruzione, senza altro interesse che la giustizia stessa. La giustizia è l’abito interiore per i magistrati, ma “non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare”, bensì “una missione nobile e delicata”. Quella per cui vale la pena vivere e anche morire. Non c’è pace senza giustizia e questa aiuta la pace e la conserva.

Grazie Rosario Livatino, testimone credibile che ci aiuta a credere nella giustizia e a cercarla con tutto noi stessi. Per amore suo che vuol dire di tutti.

Roma, Cortile d’onore davanti alla cappella della Corte di Cassazione
27/09/2022
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