Omelia per il funerale di mons. Vecchi

Devo essere attento per il famoso problema della lunghezza delle tagliatelle! Ma forse Mons. Vecchi mi perdonerà se il tempo non sarà del tutto corto per questo congedo inaspettato. Come ogni Addio, pieno di serena ma acuta tristezza, abbiamo una destinazione, un dopo e un Tu dove rivederci, ma appare sempre incredibile, tanto più per un uomo che “c’era sempre” come Mons. Vecchi. Sì, siamo fatti per vivere e quello che cerchiamo è la vita. Siamo sempre attesa, sospesi tra l’oggi e il futuro. Anche noi, come i discepoli, ci interroghiamo se il tempo è questo e quando si rivelerà pienamente il suo regno ricostituito, cioè quando vedremo il compimento delle nostre speranze, la realizzazione del sogno. Qualche volta smettiamo di attendere, tiriamo semplicemente a campare e consumiamo il presente che, però, non basta mai perché ci resta sempre il problema di quando troveremo la risposta, quella nascosta nel vento e che non finiamo mai di capire e di cercare di capire, come cantava un poeta che coraggiosamente Mons. Vecchi fece cantare davanti a Papa Giovanni Paolo II.

Celebriamo la salita al cielo di Mons. Vecchi che ci ha lasciato proprio nel giorno della festa dell’Ascensione, quando la Sacra immagine della Vergine di San Luca percorre quella salita – a lui familiare – per continuare a renderci il cielo vicino, a farci alzare lo sguardo, ad orientarci, a farci sentire che siamo a casa e la sua materna protezione. “Non spetta a voi conoscere i tempi”. Gesù non spiega tutto. Non siamo in grado. Non ci asseconda facendoci credere che possiamo tutto, con dolcezza ricorda che non possiamo capire – come potremmo? – ma ci dona la forza dello Spirito che fa vivere e che permette di capire tutto perché ci riempie dell’amore di Dio, forza che rende nuove tutte le cose, anche quelle vecchie, inesorabilmente segnate dalla caducità, dalla fine.

Cristo è il cielo e seguendo Lui, amando Lui e facendoci amare da Lui capiamo e entriamo anche noi nel cielo. Non siamo alla ricerca di uno scomparso che non sappiamo dove sia andato, ma proclamiamo la sua “presenza gloriosa” nella nostra vita! «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito», cioè lo Spirito. Il vero amore non schiaccia, non possiede anzi ci rende protagonisti, entra nel tempo e ci fa capire quello che non finisce. Riceviamo la sua forza se capiamo la nostra debolezza e non ce ne vergogniamo, se non cerchiamo la forza del mondo, del successo personale, dell’affermazione e della vanagloria di sé. La forza di Dio non è da possedere, ma da donare, non è cosa di cui vantarsi ma da testimoniare, non fa a meno degli altri e non può fare a meno del prossimo; non evita i problemi, ma li affronta con amore. Insomma siamo anche noi rivestiti di potenza dall’alto quando non ci innalziamo da soli, se non costruiamo noi i troni su cui crederci importanti e risolti, ma rendiamo importante il nostro prossimo. I piccoli, gli umili possono essere sollevati in alto, come solo i piccoli passano per la porta stretta.

Una cosa sola cerco: abitare la casa del Signore, ha voluto scrivere sulla sua tomba a Decima, dove la sua vita è iniziata e dove riposerà come suo desiderio, terra delle sue radici. Ha amato e servito la Chiesa, casa di Dio tra gli uomini, sempre, con obbedienza e anche appassionata libertà, trasparenza, come le sue parole dirette con cui investiva l’interlocutore, ma con tanto cuore da uomo attento a Dio e al prossimo, nell’ordine. Lo faceva con il tratto che tutti ricordiamo: schietto, ironico, concreto, attento alla teologia pratica, irruento ma anche riflessivo, testimoniando opportune et inopportune anche attraverso lo scontro, ma sempre per dimostrare che la vita ha senso o trova il suo senso quando incontra Gesù, non in astratto ma nella concretezza, nel quotidiano, anche quando si pensa che Dio non esiste.

Mi ha sempre raccomandato di ricordare che c’è una Chiesa orizzontale, quella che viviamo oggi e che oggi contempliamo in questa Cattedrale, ma sempre anche verticale, quella da cui veniamo, che ci ha preceduto e che anche ci seguirà. E affidare oggi il tratto lungo della sua vita ci aiuta a rendere grazie di tanta storia della Chiesa di Bologna della quale era testimone e frutto, dal parroco di Decima don Ottavio Balestrazzi o da don Leonardo, ragazzo un po’ più grande di lui. Dal Cardinale Lercaro, del quale Mons. Vecchi ha conservato tanta eredità anche quella più cara, i suoi ragazzi via via sempre più grandi, fino al suo servizio nella Chiesa di Terni, Narni e Amelia come amministratore. In realtà ha ragione chi lo ha definito il vescovo parroco.

“Lercaro mi ha insegnato a buttarmi nella mischia e Biffi a farlo bene”, quindi pastore e teologo. Amava la Caritas per portare aiuto a tanti, iniziando dagli sventurati che vedeva attorno alla Cattedrale. Discuteva molto e con molti, ma poi li ricercava cercando di fare pace. Sapeva chiedere scusa. Era uno che sgridava molto, ma poi sentiva la gioia di recuperare le persone e dare a tutte una opportunità di rivincita. Non appariva molto padre nei modi, ma poi lo era nei fatti. Era pieno di zelo battagliero per la Chiesa, così da renderlo focoso perché ardente della parola, irruento perché appassionato delle cose di Dio. Era un bolognese doc e questo lo rendeva caldo e mai distaccato: alla fine il suo cuore vinceva sempre sulle vicende che lo coinvolgevano per la generosità estrema, era di grande cuore, di vicinanza, con la capacità di amare e voler bene sul serio, chissà anche quanti sono quelli che giustamente rimangono nel cuore di Dio.

Era orgoglioso, di quell’orgoglio dettato dalla fierezza di essere cristiano, dalla consapevolezza di essere dalla parte giusta, con la squadra vincente. A sostenerlo erano la sua preghiera continua, personale e la devozione all’eucarestia adorata personalmente e in solitudine davanti al tabernacolo o richiamata ai fedeli come sorgente fontale di ogni autentica operosità, privata e pubblica. Mi commuoveva il suo studio dove campeggiava la gigantografia della sua comunità del Cuore Immacolato di Maria. Borgo Panigale: quasi un ritorno a casa, in un mondo operaio che sperimentò il suo zelo pastorale soprattutto nella formazione catechetica e nella liturgia. Per lui la Chiesa ha sempre avuto un tratto concreto, che serviva con dedizione totale che voleva ricambiata, senza subalternità, con orgoglio e anche creatività, come l’indimenticabile Congresso Eucaristico del 1997. Non a caso leggeva spesso l’omelia della sua consacrazione episcopale, dove il Cardinale Biffi ricordò come «nel collegio apostolico hanno trovato posto tanto Filippo e Andrea, uomini aperti alla mediazione e al dialogo, quanto Giacomo e Giovanni, gli impetuosi e un po’ intolleranti “figli del tuono”». Per Mons. Vecchi credo si soffermasse su questi ultimi. Lo ricordava don Ernesto stesso: «Desidero solo una cosa: essere segno e strumento di comunione, anche se la mia caratteristica di “figlio del tuono” potrebbe far pensare il contrario».

Biffi lo invitò a non lasciare nell’ambiguità e nella nebbia, a spiegare cosa crede la Chiesa di Dio, perché il clima di relativismo e di scetticismo spingono “gli spiriti più semplici e schietti” a parlare. E poi aggiunse: «Più che imporre, persuada; più che giudicare, comprenda; più che dare ordini, dia fiducia, sorregga, stimoli iniziative». E Mons. Vecchi lo faceva volentieri in bolognese, proprio per esprimere questa vicinanza, il desiderio di arrivare al cuore e di stabilire una sintonia, di un Vangelo concreto, che parlava alla vita vera e in modo vero. La sua comunicazione lo portava ogni giorno a recitare il breviario laico leggendo attentamente tutti i giornali, dai quali prendeva spunti per le sue appassionate omelie. Da adulto e prete (e fino alla fine) ha coltivato tante letture, anche quelle dichiaratamente laiche, espressioni del mondo di oggi che lo aiutavano a comprendere tendenze e mentalità. La sua biblioteca personale è ricca di volumi che spaziano dalla teologia pastorale e dalla ecclesiologia alla sociologia, alla filosofia, alla politica e altro.

La Loretta, che tanto lo ha aiutato in modo garbato, solerte e sensibile e alla quale va il suo e nostro ringraziamento per la competenza e la generosità con cui ha servito la Chiesa di Bologna nei suoi tanti servizi senza mai diventare la brontolona Marta del Vangelo, lo stava aspettando per scendere in Cattedrale per il rosario. Una settimana piena, con quella benedizione in piazza che a ben vedere è stato il suo Nunc dimitte Domine. “Tot i dè”, ripeteva sempre. “Tot i dè” per il Vangelo, la vita, la famiglia. Adesso “tot i dè” canterà – come amava – la liturgia dell’amore eterno di Dio. Il vescovo deve rendere la sua vita simile al cero che non solo porta la fiamma sulla cima, in vista di tutti, ma si dona e si strugge nell’alimentarla, affinché si diffonda nella nostra terra e tra i nostri contemporanei la luce pasquale di Cristo.

Grazie caro Mons. Ernesto per tanta luce, perché non ti sei risparmiato fino alla fine e continua, dal cielo, a pregare per noi, per la Chiesa tutta e per la tua Chiesa di Bologna. Bulagna, scusa.

 

Bologna, Cattedrale
31/05/2022
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