Stasera ringraziamo per i giorni trascorsi e per il Giubileo che abbiamo aperto con tanta solennità e gioia domenica scorsa. Facciamo memoria dei doni ricevuti, cosa non scontata in un consumo di emozioni e immagini senza impegno e legami. Farlo ci aiuta anche a riconoscerli, per non diventare rivendicativi e dimentichi, come accade quando rendiamo il dono un diritto, la grazia un possesso, tanto che non ci sentiamo amati e protetti. Chi ringrazia, poi, cammina con più leggerezza, come chi è amato sente l’attenzione e la cura che lo ha raggiunto, sempre inaspettatamente e senza merito. Per solo amore. Ringraziamo per lo spiraglio di luce, nel buio di situazioni dolorose e difficili, che ci ha fatto sentire infinitamente amati da Dio. Ringraziare non ci fa certo dimenticare le avversità, anzi, e lo facciamo non perché è andato tutto bene ma perché, anche quando il male ci ha colpito, abbiamo visto con gli occhi del cuore la presenza buona di Dio. Non c’è salvezza da soli e siamo in realtà tutti sulla stessa barca, Dio è salito su questa per darle l’ancora, il filo che la rende salda, che le permette di superare le tempeste, che la unisce al cielo. Certo, siamo sulla stessa barca ma dobbiamo ancora tanto imparare a lavorare assieme. Quando succede ci sorprendiamo! Possiamo abbandonare le facili polarizzazioni, i personalismi, gli scontri che umiliano le differenze e le rendono inutili perché solo nel dialogo e nell’unità acquistano significato.
Ci presentiamo questa sera pellegrini di speranza, attratti dalla proposta del Giubileo che è spirituale, perché richiede rigore interiore, silenzio, preghiera, ascolto, che è anche molto sociale, servizio umile e concreto per il prossimo. Il nostro è un mondo solo ed è scosso da guerre terribili, che producono una sofferenza enorme, incalcolabile, terribile, guerre che versano nei cuori e nelle relazioni umane, e tra i Paesi, odio, violenza, pregiudizi, vendette. Capire questa sofferenza ci aiuta a misurare il tempo senza la foga dell’ottimismo incosciente, senza l’attivismo di chi fa girare tutto intorno a sé, ma con la pazienza della speranza, per confrontarci, a tratti con inevitabile amarezza e sgomento, con il limite della nostra vita, con la struggente fragilità del magnifico fiore di campo che siamo, cui basta essere investito da un vento che non riconosce più il suo posto (Ps 103, 16). Cerchiamo quello che resiste al tempo, che gli dà senso, che non lo consuma, cioè quello che non si perde e rende il tempo senza fine. “Vássene il tempo, e l’uomo non se n’avvede” cantava Dante con tanta sapienza umana (Purg. 4, 9). Ma quando l’uomo se ne avvede non perde più tempo, si libera dalla fretta bulimica del protagonista e sperimenta la gioia di donare se stesso e di rendere tutte le occasioni, anche quelle dolorose, incontro di amore. In questa terra siamo pellegrini, tutti cercatori di speranza, quella per cui vorremmo che “l’oggi restasse oggi senza domani o che il domani potesse tendere all’infinito”. Chi cerca il cielo e ha speranza vede la terra piena di pezzi di vita che non finisce, come l’azzurro nei campi dipinti da Van Gogh. Dio è il cuore che ci fa sentire e ci fa palpitare il nostro cuore, che ci aiuta a ritrovarlo e a farlo funzionare. Farci amare da Lui ci localizza e ci fa “vedere” il prossimo, perché gli altri non sono oggetti che arrivano ad essere un inferno, un limite da cui difendersi perché minaccia al nostro io, poiché l’amore di Dio ci fa scoprire nell’altro il nostro prossimo. E cambia tutto! “Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere” afferma Papa Francesco, che però constata con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare e abbiamo paura di trasmettere la vita. La speranza rompe l’involucro di scetticismo e di pessimismo che ci avvolge e ci paralizza, la speranza di Cristo ci libera dalla paura di perdere la vita donandola, trasmettendola, difendendo quella di chi è nel pericolo, scaldando chi è solo. Perché c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Diamo cuore alla città! E la città siamo anche ognuno di noi. Il Signore ci fa trovare il cuore, lo riempie di sentimenti umani e questo rende familiare tutto il mondo intorno. C’è bisogno di cuore nella città, in quella folla che è in realtà una messe che può diventare piena di frutti. La città degli uomini non è un agglomerato anonimo e pericoloso attraversato da estranei aggressivi e paurosi, ma un cuore che si rivela, a cominciare dal nostro. Non c’è gioia da soli, la gioia la troviamo donandola, perché la beatitudine diventa riflesso dell’amore di Dio e ci fa assaporare l’unica felicità che resta, proprio perché nostra e di qualcun altro. Dare cuore alla città significa guardare tutti con benevolenza e amabilità, a cominciare proprio dai fratelli più piccoli di Gesù, dai quali scapperemmo o che avvertiremmo come fossero una minaccia, qualche volta pensando che siano colpevoli. La povertà non è una colpa! Essere amabili non significa acconsentire a tutto, anzi, ma trattare tutti con umanità e rispetto! Chi guarda con benevolenza si accorge del male, non fa finta di non vederlo, non ne resta prigioniero, non lo vede anche dove non c’è, non interpreta tutto con malignità solo per conferma delle proprie paure e fobie. Chi guarda con benevolenza trova in tutti il bene, anche quando è nascosto o addirittura non si vede, ma sa che c’è e che viene fuori proprio perché la benevolenza lo suscita. Amare significa rendersi amabili, stile che un cristiano non può scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò “ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano. E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore”. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. “Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge se stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile”. Papa Francesco suggerisce di operare un ribaltamento: smettere di essere indulgenti con se stessi e inflessibili con gli altri e di diventare, invece, fermi con se stessi e misericordiosi con gli altri. Dare cuore alla città significa ospitare e difendere la vita, sempre, proteggerla e curarla, non averne paura ma amarla e renderla preziosa, come è sempre se amata. Dare cuore alla città significa integrazione, una comunità che non esclude nessuno; significa dare fiducia e speranza, accoglienza e difesa dei più deboli; significa garantire condizioni possibili e degne ai propri studenti e casa a chi non ce l’ha. Dare cuore significa permettere delle opportunità a chi potrebbe uscire dal carcere e non sa dove andare, come a chi ha lavoro ma rimane straniero perché non ha la dignità di un tetto. Dare cuore alla città è visitare chi la casa la perde con l’età e non può restare se non è aiutato adeguatamente. Dare cuore è non lasciare solo chi è malato e richiede dignità e cura, sempre. Diamo cuore a chi non è padrone di sé e ha difficoltà di relazione ma che, se trova occhi amabili e benevolenti, troverà orientamento e così saprà chiedere aiuto per qualcosa che lui stesso non sa spiegare appieno, ma che lo ossessiona, lo deprime, lo ferisce. Non cerchiamo “oroscopi fantastici sull’avvenire” ma il futuro che Gesù ci ha mostrato e che scorgiamo nei suoi infiniti riflessi presenti e nelle tante possibilità che abbiamo e che sono una responsabilità, un talento.
Il Cardinale Martini propose la preghiera di un suo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, preghiera di un pellegrino di speranza che ha fatto sua la presenza di Cristo che vuole entrare nella stanza del nostro cuore per stare con noi. Questo ci trasforma e ci rende capaci di dare cuore al prossimo e alla città tutta.
“Signore Gesù, tu sei i miei giorni. Non ho altri che te nella mia vita. Quando troverò un qualcosa che mi aiuta, te ne sarò intensamente grato. Però, Signore, quand’anche io fossi solo, quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano, non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene, tu, Signore, mi basti, con te ricomincio da capo. Tu sei il mio desiderio!”.
Te Deum Laudamus. In te, Dómine, sperávi: non confúndar in ætérnum. Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno.