Omelia per la Festa di San Nicola da Tolentino

Omelia per la Festa di San Nicola da Tolentino

“Le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”, scrive l’Apostolo Paolo ai Corinti. Ma le cose vecchie possono passare? Come essere nuovi quando sperimentiamo la delusione per le nostre scelte, il logorio evidente della vita, la disillusione di fronte agli amarissimi frutti del male? Cambiare non è schiacciare un tasto nel nostro cuore digitale, confondendo le emozioni con i sentimenti, rincorrendo le infinite opportunità di credersi diversi perché cambiamo continuamente immagine, ma senza guardarne nessuna negli occhi. L’anima non è un fondo dello schermo!

Sperimentiamo continue sensazioni diverse (poi a ben vedere il campionario è in realtà monotono, molto “finito”, ripetitivo, deludente!) per scoprirci sempre uguali a noi stessi. Perché cambiamo facendo nostre le sofferenze del prossimo, uscendo da noi, smettendo di metterci al centro e di nutrire l’io, e mettendo invece al centro l’altro e amandolo.

Ecco, oggi è la festa della resurrezione di un figlio che era perduto ed è tornato in vita. È questo il senso della Quaresima: non meno vita, ma finalmente vita vera, incontro con sé, rientrare in sé, non uscire da sé! Questa è una Quaresima davvero particolare, segnata da tanta carestia come quella vissuta dal figlio giovane.

Credeva che il benessere sarebbe durato sempre, si rinnovasse automaticamente. Non misurava, perché deformato dai beni che aveva scelto di possedere. Credeva di essere sé stesso, di avere trovato l’io dicendo “mio”. Si ritrova umiliato e capendo che la propria vita non vale niente quando non amata da qualcun altro e quando non impara ad amare. In fondo le prostitute sono tanti amori ma nessun amore.

Il Padre non è moralista. Lo è il fratello maggiore che rinfaccia al Padre che aveva vissuto da dissoluto. Il Padre lo sa che aveva sperperato tutto.Non giudica: ama. Il fratello giudica e non ama. Il Padre dona fiducia. Il fratello condanna. Il Padre abbraccia, il fratello resta lontano. Il Padre è nella gioia. Il fratello nella tristezza e nei confronti. Il Padre guarda il presente e il futuro. Il fratello solo il passato. Il Padre ha chiaro che in quella sua casa “quel che è mio è tuo”, anche se uno se ne approfitta e l’altro no, ma non lo capisce, ma calcola sempre il proprio. Il Padre genera di nuovo alla vita suo figlio perché non poteva fare a meno di lui, lo amava. Il Padre è legato ai suoi figli.

Tutti e due sono invece slegati da lui, cioè dissoluti: uno andandosene, legandosi al proprio io, pensando di averlo trovato perché senza nessuno, senza dovere rendere conto. Il fratello maggiore in fondo anche lui non è legato al Padre, ragiona con “mio” e “tuo” e quello che ha suo fratello sembra tolto a lui! Il Padre non smette di amare il figlio. Per lui è sempre stato un figlio e resta tale. Nessuno può separarlo da lui se non il figlio stesso. Ed è questo il problema: solo noi possiamo separarci dal Padre e solo noi possiamo cercare quella casa dove il pane c’è in abbondanza. Deus non deserit si non deseratur. Dio non abbandona se non è abbandonato (De nat. et gr. 26, 29).

Dipende da noi. Per questo Lui non ci costringerà mai, come un padre vero, che vuole essere amato e sa che non si ama per obbligo, perché costretti. Sarebbe schiavitù. È possibile un amore in cui il mio resta mio? L’amore non è piuttosto pensarsi insieme, mettere in comune, cercare l’altro, completarsi? L’amore non è un’addizione ma molto di più, donare tutto, legarsi a qualcuno tanto che ci si pensa assieme. Quando si ha paura di amare si resta slegati. Quando si ama si desidera legarsi! Il figlio più giovane è come Adamo: vuole affermare sé stesso, la sua libertà di decidere. Nel Paradiso tutto era di Adamo. Il consiglio di Dio diventa un divieto per lui, l’amore ridotto a legge! Il male crea divisione, per cui l’invito del Padre viene letto come esclusione da qualcosa.

Così in quella casa. Il motivo per cui il Padre lo reintegrerà subito è proprio perché la sua non è una casa di legge, di regole, ma di comunione. Quando il figlio giovane chiede la sua parte di eredità vuole come cancellare il padre ed appropriarsi di quello che pensa gli appartenga. È la vittoria dell’io che pensa di essere sé stesso perché senza legami. In fondo è come il nazionalismo: conto io da solo, non perché insieme agli altri. E così faccio del male alla nazione. L’amore del Padre non possiede: lo ama per davvero tanto da morire a sé stesso dandogli “quello che spetta”. In realtà è tutto grazia, dono: il figlio ha tutto e non se ne accorge! Il male accarezza l’orgoglio, l’istinto di possedere, l’egoismo, il vero peccato perché rovina l’io facendo credere di averlo finalmente trovato! Pensiamo che vivere da soli sia la nostra libertà, che assecondare il nostro istinto sia trovare quello che cerchiamo. Vuole essere libero e si ritrova servo di un padrone, schiavo di una dipendenza. Non c’è libertà da soli. E la solitudine diventa un peso insopportabile: “Nessuno lo aiutava”.

Finiamo per umiliare la nostra stessa dignità per cui arriviamo a pascolare i porci, a buttarci via, a non contare più niente. E sperimentiamo anche la cattiveria del mondo. La solitudine produce solitudine, amara, impietosa, senza misericordia. Del resto, lui non ha aiutato nessuno, ha pensato solo a sé, perché gli altri avrebbero dovuto? È possibile tornare? È una sconfitta? No, tanto che il Padre fa di tutto per sollevarci subito da questa. La vera umiliazione di noi stessi è il peccato, cioè vivere da soli, pensare tutto in funzione di sé, dividersi, distinguersi, essere sé stessi senza gli altri. Così alla fine non abbiamo più valore e niente da dare! È incoerenza tornare e farlo in fondo solo per fame? No, tanto che il figlio più giovane “rientrò in sé stesso”, ricordandosi dell’amore, dell’abbondanza, cioè del vero legame che rende utile e piena la vita!

Spesso siamo tentati di non tornare a casa, per orgoglio, credendo che la coerenza sia restare uguali a sé stessi. Siamo figli, non individui soli! Tornare è approfittarsi dell’amore del padre? Il figlio torna perché ha fame e alla casa del Padre c’è il pane. Ripete a sé stesso e al Padre, “sono un servo!”. L’umiltà ci fa trovare la casa del Padre. Ha finalmente timore del Padre: non esige, ma chiede! Ritrova il suo io non perché va lontano, ma perché pensa alla casa, al noi! Ecco, se ricordiamo che siamo servi, che non abbiamo diritto a niente, che tutto è dono, sperimentiamo la misericordia sovrabbondante di un Padre che regala tutto il suo amore, tutto sé stesso, senza incertezze, senza condizioni, pienamente.

Noi troviamo noi stessi ricordandoci del legame, quello dell’amore, il vero legame, non quello dell’obbligo o di restare avendo il cuore altrove. “Lasciatevi riconciliare con Dio!”. È la nostra felicità! Non siamo fatti per essere soli ma per vivere la comunione di amore dove “tutto quel che è mio è tuo”. Il Padre lo vede da lontano, gli corre incontro perché l’amore ha fretta, arriva subito, anticipa le scuse, accoglie senza condizioni: lo baciò prima di farlo parlare! Non lo manda a fare un percorso di analisi per capire le motivazioni! È possibile cambiare? Non è l’ingenuità di un padre troppo tenero, sentimentale, che non si rende conto o non vuole accettare che “quel suo figlio”, come gli rinfaccia l’altro, aveva speso tutti i suoi averi con le prostitute? Non ha ragione il fratello maggiore? Noi quasi sempre sugli altri ragioniamo così.

Sì, pensiamo che l’uomo non possa cambiare, che la vita segnata dal peccato sia per sempre compromessa. Per il Padre, invece, non è cambiato nulla e tutto torna come prima, anzi con più gioia e consapevolezza. Per il fratello maggiore quello che è perso non si può ritrovare, è compromesso per sempre. Non è la giustizia che fa risorgere, ma l’amore. Ed è questa anche la proposta di cambiamento per il “giusto”: condividere l’amore verso il fratello. Anche lui, in realtà, si è abituato a vivere da solo, senza il fratello. È giusto ma potrebbe cambiare se accettasse di amare. Il Padre non vuole restare solo e non accetta nessuna logica di divisione: tutto quello che è mio è tuo. Festa del più grande, se capisce, ed anche del più piccolo!

Solo l’amore giustifica la festa. E no, non è mai buono, nemmeno da giusto, essere soli! Solo il Padre libera dal male e dalle sue conseguenze, che sono anche la diffidenza del fratello maggiore, che vede solo il peccato e non sa gioire per la resurrezione del minore. Ce lo ricorda San Nicola. Nolite diligere mundum, nec ea quae sunt in mundo, quia mundus transit et concupiscentia ejus (“Non amate il mondo, né le cose che sono del mondo, perché il mondo passa e passa la sua concupiscenza”). Oggi benediciamo i “panini miracolosi” di San Nicola, «Chiedi in carità, in nome di mio Figlio, un pane. Quando lo avrai ricevuto, tu lo mangerai dopo averlo intinto nell’acqua, e grazie alla mia intercessione riacquisterai la salute». Il santo non esitò a mangiare il pane ricevuto in carità da una donna di Tolentino, riacquistando così la salute.

Da quel giorno San Nicola prese a distribuire il pane benedetto ai malati che visitava, esortandoli a confidare nella protezione della Vergine Maria per ottenere la guarigione dalla malattia e la liberazione dal peccato. Rinnegare sé stessi, questo è il problema. Diligendo proximum purgas oculum ad videndum Deum. Amando il prossimo purifichiamo gli occhi del cuore per arrivare a vedere Dio (In Io. Ev. tr. 17). Come Elia, verso l’Oreb, che non voleva più camminare e un angelo gli portò del pane, più volte, finché non riprese le forze. Lo riceviamo da San Nicola, per l’intercessione di Maria che si accorge di noi perché ama fino alla fine. È analogo al “non hanno più vino!”. Noi dobbiamo portarlo a chi è solo, fragile, che resta indietro: è il pane della solidarietà, affidato anche a noi. Maria ci dice di prepararlo per chi non ha accoglienza, conforto. San Nicola si stimava l’ultimo dei fratelli e cercava sempre gli uffici più umili, contento quando poteva eseguire la volontà altrui, e rinunziare alla sua, Ubi non ego, ibi felicius ego. Dove non sono io, lì io sono molto più realizzato (De cont. 13, 19).

San Nicola colpiva perché aveva un modo affettivo!Non succede niente quando siamo tiepidi. Quando si trovava all’altare, raccontano le storie, la sua faccia si infiammava d’amore e abbondanti lacrime sgorgavano dai suoi occhi. Le segrete comunicazioni della sua anima con Dio all’altare e al confessionale gli facevano gustare anticipatamente le delizie della beatitudine celeste.

Ecco cosa ci chiede in questa pandemia San Nicola: pensarci assieme, essere ”Fratelli tutti” in questa casa dove quel che è mio è tuo. «Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato». Solo insieme troviamo la soluzione. Solo “Fratelli tutti” è il futuro.

Tolentino, Basilica di San Nicola
26/03/2022
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