Omelia per la Giornata del Malato

“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno”, ammonisce il profeta Geremia. Non troviamo benedizione affermando noi stessi senza l’acqua dell’amore di Dio. Quando, infatti, sperimentiamo la durezza della vita (e chi non la sperimenta?), l’arsura brucia la speranza e rivela come abbiamo costruito la nostra esistenza. Siamo benedetti quando ci sentiamo infinitamente amati anche quando non lo vediamo. Questa è la nostra forza, il senso profondo della nostra fragilissima vita fatta a immagine di Dio che è amore. La nostra anima (a volte così maltrattata e poco curata) sta bene solo quando è piena dell’amore di Dio e non ha paura ad amare gli uomini.

Nella pandemia tutti abbiamo sperimentato la nostra condizione di fragilità, quell’ospedale da campo che sembra un’esagerazione solo a chi vede il mondo con cuore distaccato, da analista e non da amante. La pandemia, con le sue statistiche drammatiche – 150.000 morti in Italia – ci rende attenti alle tante pandemie, come la povertà, la violenza, la guerra, che sommergono tanta umanità e generano sofferenza. Sento spesso l’odore inconfondibile del liquido per sanificare e mi ricordo istintivamente quello dell’ospedale. Il mondo è proprio un ospedale da campo! Gli episodi di violenza banale e di solitudine ordinaria, cui non possiamo mai fare l’abitudine; le minacce di guerra (si parla così facilmente di una terza guerra mondiale!), memoria di morti e dolori terribili, ci chiedono di curare il nostro cuore e questo mondo, di essere umili e grandi, cioè di lavorare e di credere al sogno di Dio per il mondo casa comune di tutti fratelli.

Quando ci rendiamo conto della forza del male, la risurrezione ci sembra impossibile perché il male appare sempre definitivo mentre l’amore precario e da confermare. “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”, cioè diventa una morale per orientarci, un tonico per affrontare i problemi in fondo inutile perché la vita resta la stessa, tragicamente a scadenza, imprevedibilmente spenta dal male.

Viviamo un tempo di prova e capiamo come la vita è sempre “una prova”, ce ne riserva sempre, ad alcuni veramente tante. Possiamo essere beati, parlare di felicità senza essere ingenui, dissennati? Il Vangelo ci apre la via del cielo ma questa passa per la terra e per il prossimo. Gesù non asseconda il nostro io, non lo illude annullando la nostra storia, non insegna a stare bene da soli, ma rende piena la nostra vita perché la ama e ci insegna a cercare quella del cielo iniziando a non avere paura di amare sulla terra. Gesù non risolve tutti i problemi: ci dona la forza per farlo. Gesù non ha mai garantito ai suoi una vita di benessere secondo il mondo, ma di combattere e vincere il male facendoci sentire il suo amore.

Tutti noi pensiamo in maniera pratica che beato è il ricco, chi dispone di quello che vuole, chi non deve chiedere nulla a nessuno, chi può togliersi qualsiasi soddisfazione e assecondare ogni desiderio. Ma non è davvero falso credere di stare bene perché siamo ricchi? Non è poco umano pensare di avere una vita piena perché “abbiamo”? Gesù non viene ad imporre rinunce, ma beatitudine. Però non si fa catturare dal nostro io, ma lo apre all’amore. Non passa il tempo a interpretarci, a darci consigli a distanza: ci ama in presenza e ci chiede di farlo come Lui, con fiducia e sensibilità. Gesù ci fa perdere il nostro io perché ci aiuta a capire chi siamo per davvero e ci insegna ad amare. Siamo fragili, anche se facciamo di tutto per dimenticarlo.

Come viviamo quando mettiamo il cuore nel denaro o nelle cose? Non diventiamo solo meno umani, induriti, tanto che arriviamo al punto che abbiamo più sentimenti per le cose che per le persone? Il denaro ci fa trovare la risposta alle domande della vita? Beato è il povero, non la povertà. Beato è chi non diventa prigioniero del denaro ed è libero dalla corruzione delle ricchezze. L’idolatria del denaro spinge all’uso personale dei beni comuni, allo spreco delle risorse, alla ricerca del proprio interesse, del tornaconto che divide la città degli uomini, dove finisce per comandare il più forte o insidioso, come le mafie.

Oggi celebriamo la Giornata Mondiale del Malato. Il tema quest’anno è sulla misericordia. «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Quando siamo deboli cerchiamo la misericordia, necessaria e possibile a tutti. Tutti hanno cuore da donare e tutti hanno bisogno di cuore. È forza e tenerezza insieme. Quanto sia decisiva la misericordia lo capiamo quando soffriamo! Il dolore, infatti, isola, o confonde, tanto che non si è più padroni di sé. Quante malattie di relazione, quelle psichiatriche, così dolorose, invisibili eppure così condizionanti! Nella fragilità “la paura cresce, gli interrogativi si moltiplicano, la domanda di senso per tutto quello che succede si fa più urgente”.

Oggi ricordiamo i “numerosi ammalati che, durante questo tempo di pandemia, hanno vissuto nella solitudine di un reparto di terapia intensiva l’ultimo tratto della loro esistenza, certamente curati da generosi operatori sanitari, ma lontani dagli affetti più cari e dalle persone più importanti della loro vita terrena. Ecco, allora, l’importanza di avere accanto dei testimoni della carità di Dio che, sull’esempio di Gesù, misericordia del Padre, versino sulle ferite dei malati l’olio della consolazione e il vino della speranza”. E qui la pandemia per certi versi c’è tutto l’anno, tutti i giorni!

Tutti gli operatori sanitari hanno vissuto una grande missione, a volte incompresa. Capisco la delusione e irritazione quando colpevolmente si gioca con la vita, mettendola inutilmente a rischio, seminando ignoranza, irrazionalità. Non si tratta di dittatura, ma di uno sforzo gigantesco dell’umanità per proteggersi, non senza contraddizioni, certo, ma unica via per sconfiggere il virus. “Il malato è sempre più importante della sua malattia”. Per questo occorre ascoltare il paziente, la sua storia, le sue ansie, le sue paure. “Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia”.

Dobbiamo tutti compiere un grande sforzo di misericordia per essere vicini a chi soffre, per consolare coloro che sono nel pianto, liberandoci dall’auto-cordia, dall’avere cuore solo per sé, che porta alla sclerocardia, quella malattia del cuore che lo rende duro, insensibile. Per questo sono davvero beati quelli che sono nel pianto. Sono quelli che soffrono e fanno propria la sofferenza, che non cambiano canale, che non scappano, che restano accanto al letto del loro amato. Che mondo è che non sa più piangere? Non viene da piangere di commozione a vedere certe sofferenze? Si può amare in maniera fredda? La misericordia non porta a piangere con chi è nel pianto? Quelle lacrime non ci sono affidate perché siano asciugate e altri non soffrano? E poi chi consola?  Gesù piange: vede piangere e si mette a piangere. Non resta impassibile per non farsi coinvolgere! Non capiamo davvero le cose quando vediamo meglio con quel collirio che sono le lacrime? Pietro pianse amaramente e per la prima volta capì la misericordia di cui aveva bisogno.

Come stiamo quando davanti al dolore scappiamo, lasciamo soli? Gesù non può vedere la gente e non sentire compassione. Dice il salmo 56, 9: “I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?”. L’otre è il cuore di Gesù, che conserva anche i capelli del nostro capo e asciuga con il suo amore le lacrime del dolore. Piange chi non si abitua al male, chi si fa ferire, chi lo ritiene inaccettabile. E quel pianto diventa scelta e soprattutto misericordia: la scelta di curare, di stare vicini sempre, di non lasciare mai solo nessuno nella sua debolezza. Tutti con la misericordia che Dio ci dona e ci insegna possiamo consolare, cioè dare sicurezza, fare sentire curati, importanti, rispettati, forti nella fragilità, insomma amati. E rideremo, la vita ride, perché trova se stessa.

Vorrei concludere, nel trentesimo della sua scomparsa, con le parole di David Maria Turoldo, cantore della bellezza e della poesia di Dio. “Ma tu non avevi lacrime, a noi invece era dato piangere. Questo, forse, ti ha sospinto tra noi? Dio si è fatto uomo per imparare a piangere. Per navigare con noi in questo fiume di lacrime, fino a che la sua e nostra vita siano un fiume solo. Gesù è il pianto di Dio fatto carne”. “Mostrati, Signore, a tutti i pellegrini dell’assoluto. Vieni incontro, Signore, con quanti si mettono in cammino e non sanno dove andare. Cammina, Signore, affiancati e cammina con tutti i disperati sulle strade di Emmaus. E non offenderti se essi non sanno che sei tu ad andare con loro, tu che li rendi inquieti e incendi i loro cuori; non sanno che ti portano dentro: con loro fermati poiché si fa sera e la notte è buia e lunga, Signore”. E il Signore viene, ci abbraccia con la sua misericordia, ci dona quello che ci è necessario, per distribuirla ai tanti che sono nella sofferenza e ci aspettano.

Basilica di San Paolo Maggiore Bologna
13/02/2022
condividi su