Omelia XVII domenica tempo ordinario. Ricordo di don Fabio Betti

Mi ha colpito vedere l’immagine che don Fabio Betti aveva nella copertina della sua Bibbia: i campi, Gesù che semina e un grande albero, quello che cresce proprio dal seme più piccolo. Sì, la Parola di Dio, quando raggiunge la terra buona – che non è una particolare ma è solo quella del nostro cuore pur malconcio com’è – genera frutti. Dio non vuole che la nostra vita rimanga sterile. La vita produce vita e trova se stessa donando vita. Se il seme caduto in terra non muore rimane solo, ma se muore si conserva. Solo morendo, cioè amando, il seme diventa frutto. Gesù vuole che la nostra vita dia frutto, perché così trova se stessa. Chi la perde – non perché l’ha lasciata da qualche parte o semplicemente non la trova più ma perché la regala, cioè fa qualcosa per il prossimo – la conserva e la trova. Chi ama lo capisci e si capisce solo amando. Regala e possiedi. È esattamente il contrario di quello che il nostro istinto pieno di paure porta a fare. Ma c’è un altro istinto, che pure abbiamo dentro ognuno di noi, che ci fa amare e perdere quello che abbiamo perché vogliamo sia dell’amato. Non facciamo i regali proprio per questo? L’amore più c’è più cresce! Non è ad esaurimento! Si esaurisce quando lo conserviamo, calcolando, cercando solo la nostra convenienza, il nostro interesse e finiamo per davvero a non fare il nostro interesse! Tutti noi, tutti, in modi a volte davvero complicati (ma il Signore li conosce tutti perché ci ama), cerchiamo l’amore. Veniamo da questo e aneliamo a questo, perché l’amore è vita. Ecco, oggi ringraziamo per i tanti frutti che il Signore ci ha donato attraverso don Fabio, portando nel cuore l’amarezza per l’assenza, ma anche misurando e contemplando la presenza. E don Fabio, in modo diretto, come sapeva fare lui, rimette al centro di tutto Gesù, senza aggiunte, da credente rigoroso, essenziale qual è. Non a caso amava questo santuario – il primo della Diocesi – e lo riempiva di vita, di accoglienza, di preghiera, di amicizia. Capiamo quello che non finisce, che vedremo, nella pienezza, in cielo. E questo ci aiuta a vivere bene, libera dalla paura, consola, riempie di luce.

Dio vede il male e non è indifferente. L’uomo sì! Per chi ama il male è insopportabile. Possiamo vedere la persona che amiamo e non fare niente per lui o per lei? E Gesù ci chiede di guardare con amore il nostro prossimo e ci chiede di considerare l’estraneo come il tuo prossimo, e tu puoi esserlo per lui. Ma pensiamo: è un estraneo, non lo conosco, non so come reagisce o cosa pensa. No, ripete Gesù, è il tuo prossimo, il tuo fratello più piccolo! Siamo discepoli di Cristo, di Colui che “ha dato vita anche a voi, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi”. E lo ha fatto solo per amore. E noi possiamo vedere il dolore degli altri e non fare niente? Abramo prega, intercede, con insistenza. La preghiera libera sempre dallo sconforto e dalla rassegnazione. Chi prega non esce fuori dal mondo, anzi, direi, ci entra dentro, nel profondo, porta con sé le speranze e le angosce. Come Abramo che si fa cuore e voce degli altri. Papa Francesco ha definito la preghiera “antenna” di Dio in questo mondo, un chiedere in favore di un altro, per tutti, senza distinzioni. “Siamo tutti foglie del medesimo albero: ogni distacco ci richiama alla grande pietà che dobbiamo nutrire, nella preghiera, gli uni per gli altri”. Preghiera e fraternità con tutti, universale.

Ma noi sappiamo pregare? I discepoli vedono Gesù che prega e vogliono imparare a fare come lui. È la chiave dell’amore e del cristiano: imitare Gesù. Essere come Lui. Gesù ci insegna non solo a fare la volontà di Dio (che poi in fondo è anche la nostra perché dentro di noi un pezzo di Dio ce lo abbiamo tutti, anzi è il più pezzo più profondo, personale, il vero io, l’anima), ma ci insegna ad essere persone vere. Non smettiamo di imparare a pregare! E Gesù non dice: “Sei troppo ignorante” oppure “sei troppo materiale”; non ci impone una preparazione previa ma ci insegna. Questo significa che tutti possiamo imparare a pregare. Quando si imparava a scrivere iniziavamo a fare tanti, infiniti esercizi, scrivendo sempre le stesse vocali e consonanti, finché poi, poco alla volta, componevamo le parole e le frasi. Ripetere ci può apparire poco personale, noi che scambiamo profondità per emozione superficiale. Insistono i poveretti. I ricchi, i forti, i pieni di sé, quelli che si considerano molto, vogliono essere esauditi subito e se non lo sono si disorientano; si arrabbiano, difendono la loro reputazione, la dignità, il ruolo e quindi lasciano perdere perché insistere significa umiliarsi. Insiste chi ha bisogno. A volte pensiamo che la preghiera sia un istinto, come un’ispirazione che non si può certo comandare ed è di fatto indipendente dalla nostra decisione. Ed in parte è vero che la preghiera è ispirata dallo Spirito e che questo traduce i gemiti inesprimibili della nostra vita. Ma senza “imparare” restiamo analfabeti, in fondo pagani pratici, cioè uomini che vivono senza Dio, orfani, a volte con l’esaltazione del protagonismo e altre con la disperazione di essere soli ad affrontare il non senso e le tempeste del male. Impariamo ripetendo le parole di Gesù, che plasmeranno il nostro cuore e lo apriranno alla fiducia. Infatti Gesù non dice: provate un po’, vediamo se ho tempo, se la vostra domanda viene presa in esame! Gli uomini fanno così! Gesù ci rassicura: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto!”.

Ci rivolgiamo ad un Padre. Dio, il cui nome è impronunciabile, che non possiamo vedere perché troppo grande, è Padre, Padre mio e Padre nostro, di altri, come me. Non siamo figli unici, anche se a volte ci comportiamo così! E pregare il Padre ci ricorda che anche quando siamo soli facciamo parte di un noi. È sempre nostro e noi siamo di qualcuno! La preghiera è personale e per certi versi sempre al plurale, per imparare a pensarci assieme! Abbà. Babbo, con la confidenza e la libertà dei bambini che imparano a parlare proprio riconoscendo il Padre. Fabio aveva una chiara dimensione comunitaria della fede. Diceva: “Cos’è la preghiera? Cosa significa pregare? Ricordarsi continuamente di Dio. Rivolgersi a Dio con amore. È sguardo d’amore: chi non ama non prega, chi non prega non ama. Non ho tempo, il tempo è cosa relativa, ho il tempo che Dio mi dona; se ho molto da fare devo pregare molto. Avrò poco tempo, ma il problema forse è un altro: la scarsità d’amore. Amore: chi ama dona il suo tempo”. Continua a farci scuola di spiritualità! Per lui il cammino di fede richiede un lavoro personale di apertura spirituale senza il quale il cristianesimo rischia di essere solo apparato esterno che non trasforma la vita. Aveva ragione.

La sua memoria, il seme della sua vita dona ancora tanti frutti, anzi, forse oggi lo capiamo ancora di più e ci spinge a scegliere di essere cristiani, a costruire comunità. Padre mio e nostro, oggi e sempre.

Monovolo, Santuario
24/07/2022
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