Prolusione di Inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà Teologica di Sicilia S. Giovanni Evangelista

«L’uomo è la via di tutte le religioni. Il Magistero di Papa Francesco sulla pace, il dialogo interreligioso, i rapporti tra le culture»

All’inizio di questa Prolusione con cui si inaugura l’anno accademico 2022-2023, desidero ringraziare in primis Sua Eccellenza, il caro Mons. Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo e Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Sicilia, per il gentile invito; nonché i confratelli Vescovi, che nei giorni scorsi hanno vissuto insieme l’incontro periodico della Conferenza Episcopale Siciliana e che adesso esprimono con la loro presenza l’attenzione a questa importante istituzione accademica. In realtà a ben vedere anche questo è un pezzo del nostro cammino sinodale, importante, perché luogo di preghiera, di riflessione, di confronto, di ascolto. Insomma qui siamo invitati come Maria, la sorella di Marta, a metterci ai piedi di Gesù per ascoltare e comprendere la complessità della nostra vita e del mondo. Maria non si estranea come pensa la sorella. Chi si ferma ai piedi di Gesù si ferma ai piedi dell’uomo mezzo morto. Con Gesù si cresce, si trova quello che non finisce e si apprende l’arte del camminare e del farlo insieme.

Ringrazio fra Rosario Pistone, Preside della Facoltà, i docenti e il personale tutto della Facoltà stessa e delle istituzioni collegate. Rivolgo un saluto cordiale anche alle autorità civili. Ed infine, ma non certo per importanza, saluto cordialmente tutti gli studenti e gli amici, che hanno voluto essere presenti a questo atto accademico. Non siete utenti. Cresciamo insieme in quella straordinaria avventura che è la ricerca personale, teologica, pastorale, il cui legame con la Chiesa e con il mondo è decisivo.

Dico subito che, come mi è capitato ogni volta che sono venuto a Palermo, anche questa volta mi sono sentito accolto e mi sento davvero come a casa. È una casa ricca di tanta storia e accoglienza, di cultura e umanità. E poi parlate spesso delle Sicilie: siete nella vostra stessa identità uniti e plurali allo stesso tempo!

L’umanità al centro

Se mi è permesso, vorrei partire proprio da questo sentimento per sviluppare il tema che mi è stato affidato in riferimento al Magistero di Papa Francesco: L’uomo è la via di tutte le religioni. Parto dal sentimento profondo di trovarmi a casa tra di voi, di essere stato accolto prima di tutto come persona in una terra che non è la mia terra natia. Pochi giorni fa abbiamo celebrato la memoria di Santa Teresa d’Avila, a cui è stato attribuito non certo a caso il titolo di “Dottore della Chiesa”. A proposito della sua esperienza di fede Teresa d’Ávila scriveva: «Ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo» (Il libro della vita, cap. 22). Teresa aveva intuito nella sua esperienza di fede che l’umanità è al centro del messaggio cristiano. E il Cristianesimo in effetti è questo: è Dio impegnato in una ricerca dell’uomo talmente intensa, da farsi uomo lui stesso. L’umanità è dunque un vero locus theologicus, un luogo in cui incontrare il Dio di Gesù Cristo. Quando parliamo di “umanesimo cristiano” intendiamo questa idea di uomo in relazione a Dio e con il prossimo: un uomo reso ancora più uomo, reso se stesso da Cristo. Non è affatto generico, quindi, né riparo per un cristianesimo ingrigito, ma locus per comunicare l’immagine più vera di Dio e stabilire con i mendicanti di vita e pellegrini come noi un’alleanza salvifica. Fratelli tutti.

A questo proposito, così si esprimeva il Concilio Vaticano II: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Egli è “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. […] Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo ha amato con cuore d’uomo» (GS, n. 22). Ricordiamo i sessant’anni dal suo inizio che chiede anche a noi, anzi soprattutto a noi, di avere, come ha chiesto papa Francesco lo scorso 11 ottobre, “lo sguardo dall’alto” “con gli occhi innamorati di Dio”. Non lasciamo cadere nel vuoto l’appello a ritornare “alle pure sorgenti d’amore del Concilio, a ritrovare “la passione del Concilio” perché la Chiesa sia abitata dalla gioia”. C’è un enorme bisogno di gioia, di sicurezza, perdute in un mondo imprevedibile, cangiante, che istilla un modello di vita pornografico, insulto alla debolezza. C’è un enorme bisogno di relazione vera, in un mondo iperconnesso e sempre più di isole, con le conseguenze anche nella psiche, fragilità che non possono non preoccuparci. C’è bisogno della via, verità e vita di Cristo e di una Chiesa che smentirebbe se stessa senza la gioia dell’incontro con Lui. Lo sguardo indicato da Papa Francesco, decisivo nella ricerca teologica e nella vita cristiana (ogni cristiano deve essere teologo perché questa è intimamente legata all’esperienza di Dio e alla preghiera, elemento anche questo dell’ortoprassi!), è lo sguardo nel mezzo: “Stare nel mondo con gli altri e senza mai sentirci al di sopra degli altri, come servitori del più grande Regno di Dio (LG, 5); portare il buon annuncio del Vangelo dentro la vita e le lingue degli uomini (Sacrosanctum Concilium, 36), condividendo le loro gioie e le loro speranze (GS, 1)”. Aggiungerei anche un’altra indicazione, così importante per tutta la città degli uomini tentata dalle contrapposizioni sterili e da false semplificazioni offerte dal polarizzare tutto: «Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre! Quante volte si è preferito essere tifosi del proprio gruppo anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, “di destra” o “di sinistra” più che di Gesù; ergersi a “custodi della verità” o a “solisti della novità”, anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa”. “Superiamo le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più “una cosa sola”, come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi (cfr Gv 17,21)».

Non smettiamo di assumere la prospettiva teologica del Concilio che è essenzialmente pastorale. Pastorale non intesa come una teologia di serie b o c, ma come una teologia che vive del corpo a corpo con le esistenze umane, con le loro gioie e sconfitte, e con le grandi sfide storiche: la pace e la guerra, la difesa urgente dell’ambiente e la lotta per la giustizia sociale, la cura per il dialogo tra tradizioni religiose e umane, le contraddizioni dell’antropologia digitale, della quale, mi sembra, siamo solo all’inizio ma che tanto interroga le nostre comunità. Penso anche ai temi legati alla pace, tanto più in un momento in cui sentiamo, come mai nel recente passato, la guerra vicina. Non dobbiamo vigilare di più e aiutare una vera cultura della pace? Non è compito evangelico della nostra ora pensare e agire teologicamente in vista della pace, la pace trascendente e quella storica? La storia lo ha mostrato più volte: quando la Chiesa e i cristiani hanno scelto la via profetica della pace e della sua testimonianza, spesso fino al martirio, ha rappresentato la speranza nella paura, la luce nelle tenebre. La pace evangelica costituisce davvero il compito urgente e complessivo delle nostre facoltà di teologia. Questo compito completa quello dell’ambiente dell’unica casa comune – la stanza del mondo – che la Laudato si’ ha mostrato ampiamente: “tutto è connesso” e non vi può essere pace e futuro sostenibile – degli uomini e della terra – se accettiamo le ingiustizie, le disuguaglianze, se i poveri sono umiliati o lasciati morire nel mare. E parlo di questo pensando anche alla pazienza e accoglienza di tante comunità in Sicilia verso i fratelli profughi. La Chiesa che è chiamata a vivere in condivisione con gli ultimi e i naufraghi della vita. La teologia non può diventare un discorso interno, alla fine autoreferenziale, ma deve trovare, partendo dal confronto con le domande della storia, partendo dalla pace e dai poveri, una novità di discorso, perché sia coraggiosa ed evangelicamente piena di mordente. Vorrei citare a proposito un passaggio dell’ultimo indirizzo di saluto in analoga occasione dell’indimenticato Cataldo Naro, a cui tutta la Chiesa deve molto. “Si tratta di superare in qualche modo, con un dialogo libero e rispettoso, quella divisione tra saperi e quella separazione netta tra le scienze come anche quella marginalizzazione del discorso della fede che sempre più appaiono come un limite della vera cultura. C’è l’esigenza sempre più avvertita di trovare una qualche forma di unità e di organicità della cultura. C’è da superare una separazione non solo tra i vari saperi ma anche tra fede e cultura che è durata troppo a lungo, per troppi secoli, con un risultato complessivo di impoverimento della cultura”. Aggiungerei anche della riflessione teologica. Grazie Cataldo e aiutaci a avere coraggio e creatività per continuare a farlo.

Servire, ascoltare, valorizzare l’uomo significa accostarsi al mistero grande ed ineffabile di Dio. Cosa può voler dire oggi “cercare Cristo nell’umanità” per una istituzione accademica come la Facoltà Teologica? Come Papa Francesco ha aiutato con il suo Magistero a riconoscere nell’uomo di oggi una via di santità, non solo per noi cattolici ma anche per le altre religioni?

Una Teologia attenta alle persone

Papa Francesco ci ha invitato in questi anni a coltivare un’attenzione profonda ed una condivisione reale con gli uomini e le donne del nostro tempo. Ha battuto spesso sui danni prodotti da una cultura dell’indifferenza, quella che non fa accorgere del prossimo. Indifferenza non è asolo passare oltre ma anche non “guardare negli occhi”, “non toccare” l’altro. In questo senso, il Papa ha come declinato a modo suo le parole illuminanti con cui si apre la Gaudium et Spes e che tutti noi ricordiamo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS, n. 1).

È vero che la Teologia ha bisogno di libri, di silenzio, di ricerca accurata delle fonti, di rigore e serietà: ma tutto questo non può che essere in vista di una prossimità sempre maggiore con le donne e gli uomini nostri contemporanei. Cosa succede quando questo non avviene? In altre parole, anche la Teologia cristiana, forse soprattutto la teologia, non può guardare da lontano, chiusa all’interno di un “muro di carta ed incenso” (don Milani), indifferente di fronte ai drammi che si continuano a perpetuare. Lo studio in senso cristiano è l’ascolto profondo delle domande che ogni donna e uomo del nostro tempo portano dentro di sé. Questa caratteristica non lo rende affatto inferiore ad altri sistemi e centri di indagine. Anzi! E l’attenzione all’umano, ad iniziare da quello dei poveri – modo per conoscerlo tutto – arricchisce lo studio. Non dimentichiamo l’ammonimento di Evangelii Gaudium (201): “Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali”. Cosa accade anche alla carità quando non è aiutata dalla riflessione teologica? Non rischia di restare prigioniera di un dato esperienziale decisivo, certo, ma che non riesce a produrre cultura, progetti, interpretazioni che usino anche le varie scienze, senza per questo allontanarsi dalla vita? Anzi. Se restiamo in questa prospettiva, l’attenzione all’umano presenta anche un aspetto “cristologico”: si tratta di scorgere il mistero di Gesù nella storia, perché il Figlio di Dio trascendente è sempre presente nell’immanenza, soprattutto nei più piccoli e negli ultimi (cfr. Mt 25).

Nella Facoltà Teologica si debbono approfondire i testi della Bibbia per farne risplendere il significato spirituale, umano e politico. Vorrei questa sera riflettere con voi sulle Beatitudini di Matteo. È un Vangelo della gioia, così diverso da quelle offerte abbondantemente dai numerosi e ricchi fornitori di benessere individuale, ma proprio per questo umanità piena che parla alla persona. Oggi più che mai c’è bisogno che la Teologia ci faccia riflettere sulle parole profetiche che Gesù rivolgeva ai suoi contemporanei che lo ascoltavano incuriositi, ma che erano anche stanchi, tristi, oppressi. Non dobbiamo pensare che l’epoca in cui è vissuto Gesù sia stata più semplice della nostra. Non mancavano certo guerre, soprusi e ingiustizie. Ma proprio lì Gesù spiega il mistero di Dio Padre alla gente, parlando di semplicità, consolazione, mitezza, giustizia, misericordia, purezza di cuore, pace, ricerca prioritaria del Regno di Dio (Mt 5,1-12). Cosa dice all’antropologia che identifica il Vangelo come residuale una gioia come questa? Come risuonano queste parole di Gesù qui oggi? Come risuonano a Palermo e in Sicilia? La Teologia è questo: un’eco delle parole e dei gesti di Gesù, fedelmente e sapientemente riproposti alle donne e agli uomini di oggi. E per farlo occorre una profonda conoscenza della parola e altrettanto della realtà e dell’umanità, con quel di più che è la relazione diretta, l’amore intelligente, lo studio capace di usare le varie discipline e di ordinarle tutte per una conoscenza della persona.

 

Nel e oltre il Mediterraneo

Cosa potrebbe significare per la ricerca teologica in questa terra prendere sul serio le Beatitudini dettate da Gesù? Mi vengono subito in mente le sue parole registrate dal Vangelo di Matteo: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10). Come non pensare a padre Pino Puglisi, di cui dopodomani – il 21 ottobre – ricorre la memoria liturgica, e come non pensare ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alla loro scorta, a trent’anni dalle terribili stragi di Capaci e Via D’Amelio? Come non pensare ancora al beato Rosario Livatino, sub tutela Dei, e ai tanti servitori dello Stato come il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il vicequestore Ninni Cassarà, il Presidente Piersanti Mattarella, l’imprenditore Libero Grassi? Il Signore custodisce nel libro della vita questi e tanti altri nomi. E siano di esempio in un momento nel quale abbiamo bisogno di persone delle istituzioni credibili, che diano credibilità ed efficacia a queste, elemento portante della casa comune. La Teologia più vera è quella scritta dai santi, a volte purtroppo con l’inchiostro rosso del loro sangue di martiri. Alcuni di loro sono stati elevati agli onori degli altari: di certo, tutti sono conosciuti dal Signore. La loro vita è una “teologia vivente” che responsabilizza tutti, in questo caso gli studiosi. Una teologia che sfugga alla tentazione gnostica (EG94), con il suo fascino ma che porta però ad una ricerca interessata unicamente a “una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti”.

L’annuncio del Regno di Dio ci rimanda, invece, sempre alla storia di questa terra, al suo “qui ed ora”, comune a tuti gli uomini, nostri compagni di strada. Ma chiede anche di guardare oltre, nel tempo e nello spazio. Perché il Regno è cadenzato dal tempo di Dio, il tempo dell’amore senza fine, il tempo della verità nella carità, il tempo della giustizia divina sulla storia personale e comunitaria e sulla tentazione giustizialista, il tempo della comunione dei santi che rivela quel legame umano che pure già viviamo, essenza stessa della Chiesa. La Teologia è chiamata ad allargare gli orizzonti mondani e a spiegare che il cristiano si muove nel tempo di Dio. La contemplazione del Regno ci aiuta ad andare oltre nello spazio. Solo porci davanti al tempo ci permette di vivere nello spazio, di capirlo con profondità e intelligenza, ma senza restarne prigionieri, tanto da diventare capaci di scorgere in esso i segni dell’Epifania di Dio. Lo spazio e il tempo per Palermo e la Sicilia è la sua vocazione “mediterranea” fondamentale. Il Mare nostrum è stato da secoli culla di civiltà: basti pensare alla terra in cui è nata la Bibbia, quella Terra Santa che si affaccia proprio sul Mediterraneo. Non una contemplazione che può portare ad un cristianesimo disincarnato, facile, deista, che libera dall’impegno di una relazione vera e scomoda come può essere amare e farsi amare da una carne e non dà un’idea che assume i tratti imprendibili e rassicuranti per un io isolato che resta così solo.

Seguiamo la storia e il corpo. Pochi anni dopo gli eventi della risurrezione, San Paolo si metterà in mare per raggiungere le chiese sparse nel Mediterraneo e annunciare la lieta novella. Il libro degli Atti registra che è approdato in Sicilia, a Siracusa (At 28,12), nel suo ultimo viaggio verso Roma.

In questa sede mi piace riprendere e approfondire con voi quanto è emerso nel Convegno sulla Teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto Mediterraneo, celebrato a Napoli nel 2019. In quella occasione Papa Francesco ha detto: «Il dialogo si può compiere come ermeneutica teologica in un tempo e un luogo specifico. Nel nostro caso: il Mediterraneo all’inizio del terzo millennio. Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte storico, geografico, umano, tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo» (Intervento del 21 giugno 2019).

Una cultura del dialogo e della pace

Riprendendo i gesti e la riflessione di Giorgio La Pira – un altro siciliano! – Papa Francesco richiama l’importanza di dar vita ad una cultura di dialogo e di pace. Ne abbiamo fatto una esperienza concreta nelle giornate dal tema Mediterraneo, frontiera di pace, che si sono celebrate nel 2020 a Bari e lo scorso febbraio a Firenze. La Teologia del Regno di Dio non può sottrarsi alle sfide del Mediterraneo, uno spazio spesso drammatico per le vicende legate all’immigrazione, ma nel quale le religioni possono diventare una risorsa determinante per risolvere o almeno per alleviare problemi epocali. A questo proposito, ancora citando La Pira, il Papa diceva nel suo discorso a Bari due anni fa: «Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare: è il mare del meticciato, «culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione» (G. La Pira, “Le attese della povera gente”, Cronache sociali 1/1950). […] Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta una straordinaria potenzialità. […] Solamente il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio se stessi. Il dialogo è quella parola che ho sentito oggi: convivialità. […]. Per chi crede nel Vangelo, il dialogo non ha semplicemente un valore antropologico, ma anche teologico. Ascoltare il fratello non è solo un atto di carità, ma anche un modo per mettersi in ascolto dello Spirito di Dio, che certamente opera anche nell’altro e parla al di là dei confini in cui spesso siamo tentati di imbrigliare la verità. Conosciamo poi il valore dell’ospitalità: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2). […] Troppo spesso la storia ha conosciuto contrapposizioni e lotte, fondate sulla distorta persuasione che, contrastando chi non condivide il nostro credo, stiamo difendendo Dio. In realtà, estremismi e fondamentalismi negano la dignità dell’uomo e la sua libertà religiosa, causando un declino morale e incentivando una concezione antagonistica dei rapporti umani. È anche per questo che si rende urgente un incontro più vivo tra le diverse fedi religiose, mosso da un sincero rispetto e da un intento di pace» (Intervento del 24 febbraio 2020).

Fare cultura in senso cristiano oggi mi pare non possa prescindere da questa urgenza: quella di costruire la pace insieme. Vediamo dove portano l’ignoranza e la violenza. La Chiesa è esperta di dialogo, capace di ascolto, propensa a valorizzare il bene che lo Spirito continua a realizzare nella storia. È “esperta di umanità”, secondo la definizione di Paolo VI, ma ad iniziare dalle aule accademiche è una palestra di confronto leale e di crescita reciproca, soprattutto su quelle tematiche che sembrano più spinose e scottanti.

Tre mandati per la Teologia

Alla luce di quanto ho esposto, mi sento di raccogliere alcuni spunti per offrire un “triplice mandato accademico” per la Facoltà Teologica di Sicilia. Anche io sono Vescovo e insieme Gran Cancelliere, e anche io sono chiamato a volte a concedere la cosiddetta venia docendi, il permesso di insegnare. Vorrei con grande umiltà e tanta fraternità, all’inizio di questo anno accademico consegnare la venia docendi a tutti voi, che a vario titolo siete impegnati nel mondo teologico, non prima di aver consegnato tre mandati precisi.

Un primo mandato riguarda proprio il dialogo. La Chiesa italiana sta vivendo il secondo anno della prima fase del Cammino sinodale, che riguarda l’ascolto. Stiamo imparando a dare spazio alle istanze che vengono dal basso, a non restare indifferenti alla voce soprattutto dei più piccoli. È tanto necessaria una teologia che nasca dal parlarsi e che a sua volta nutra il dialogo a tutti i livelli. Come affermato da Paolo VI in quel passaggio bellissimo dell’Ecclesiam suam: “La Chiesa cattolica […] dev’essere pronta a sostenere il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio”. Dialogo, sempre con le espressioni di Paolo VI, con tutto ciò che è umano, con i credenti in Dio, con i fratelli separati, dialogo infine interno alla stessa Chiesa cattolica. Abbiamo bisogno di Facoltà, che siano maestre di dialogo, in cui tutte le sue anime interne, dal Gran Cancelliere all’ultimo studente iscritto, sperimentino la bellezza del confronto leale e sereno in vista di un discernimento evangelico. Questo vale anche nei rapporti con gli Istituti di Teologia e di Scienze Religiose, collegati alla Facoltà e che la Facoltà è chiamata a guidare e valorizzare. Papa Francesco diceva: «È la pratica quotidiana dell’incontro: uno stile di vita che non fa notizia, ma che aiuta la comunità umana ad andare avanti» (Udienza all’Accademia di Svezia, 19 novembre 2021). Questo tipo di dialogo della Chiesa e nella Chiesa è un modo concreto per crescere insieme. L’enciclica Fratelli tutti apre una grande visione, raccogliendo il cammino di questi decenni e indicando una prospettiva decisiva per il mondo ma anche per il ruolo stesso della Chiesa. E la Fratelli tutti richiede dialogo e capacità di farlo, cioè identità, formazione cristiana intelligente e preparata. Una gande prospettiva, affascinante, che può offrire nuove motivazioni alla nostra formazione cristiana. La Sicilia ha una storia e una capacità per cui il dialogo non è un accessorio ma elemento costitutivo da sempre.

Il secondo mandato, connesso al primo, è quello dell’amicizia con i non-cattolici. Proprio qui, in Sicilia e a Palermo, all’attenzione alle fonti della grande Tradizione cristiana potete accompagnare con frutto la cura delle relazioni con le altre tradizioni cristiane e con le altre religioni, che sono nate e si sono sviluppate nel Mediterraneo. Questo significa anzitutto uno studio approfondito della ricchissima tradizione orientale cristiana, come quella ortodossa bizantina che ha lasciato un’eredità artistica sublime. Anche l’ebraismo, soprattutto nel primo millennio, ha messo in questa terra radici, che anche a distanza di secoli portano i loro frutti. Mi preme qui sottolineare con soddisfazione il gesto con cui ormai cinque anni fa Mons. Lorefice ha messo a disposizione l’Oratorio di Santa Maria del Sabato, perché diventasse una sinagoga in cui gli ebrei possano riunirsi e pregare. Anche l’Islam ha segnato la cultura di questa terra, come si vede nell’architettura e nella lingua: possiamo ancora approfondire insieme con questi fratelli ciò che ci accomuna, come il senso della trascendenza, della preghiera e dell’elemosina. La collaborazione in vista di rafforzare il filo con i figli di Abramo, con la Biblioteca La Pira per lo studio della storia e delle dottrine dell’Islam, ma anche con una laurea con l’università perché senza le teologie cristiane, dell’ebraismo e dell’Islam il sapere è manchevole, mentre la conoscenza è seme di pace. Non credo che si possa fare una Teologia seria e all’altezza delle sfide del nostro tempo, senza lo sforzo di una amicizia profonda con le altre confessioni cristiane e le altre religioni, nonostante le fatiche e le difficoltà che questo talora comporta. Questa è forza di pace. La Chiesa e i cristiani devono scegliere la via della pace e della giustizia. La pace evangelica costituisce davvero il compito urgente e complessivo delle nostre facoltà di teologia. E pace significa anche che non vi può essere futuro sostenibile – degli uomini e della terra – se i poveri sono dimenticati. La teologia certamente troverà dal confronto sulla pace e sui poveri nuova e coraggiosa riflessione, evangelicamente piena di mordente.

Infine, vi consegno un terzo mandato. Abbiamo bisogno di docenti, di studiosi e di studenti interessati a fare Teologia vivente: ricercatori delle radici della vita cristiana nelle Sacre Scritture; conoscitori delle lingue antiche e moderne per aprirsi alle altre culture, lontane e vicine nello spazio e nel tempo; amanti della vera tradizione della Chiesa e della sua evoluzione nei secoli; esperti in umanità, che sappiano declinare le leggi della vita con sapienza, educando le coscienze alla libertà; specialisti nei dogmi antichi e in grado di tradurli in categorie comprensibili a tutti; interessati a capire la società nelle sue debolezze, ma soprattutto a valorizzare i suoi sogni; creativi nei nuovi linguaggi comunicativi del nostro tempo. La specializzazione delle varie discipline non deve far dimenticare che la nostra Teologia è al servizio della Chiesa per il bene dell’umanità.

Conclusione

Questi mi sembrano i mandati che affiderei alla Teologia che si fa nelle aule dell’accademia, ma anche in quelle delle catechesi parrocchiali, negli oratori e in tutti i luoghi in cui si riunisce la comunità cristiana: elaborare un pensiero dialogico, che sappia presentare con mitezza le verità crocifisse della fede cristiana, che sappia formare le coscienze alla libertà e al bene per rinnovare la cultura dal di dentro, che sappia costruire ponti tra le religioni, che sappia disinnescare le tensioni che causano le inimicizie e attivare percorsi di pace e di riconciliazione.

Questa è la Teologia che prolunga il Vangelo nel nostro presente. Questa può essere la Teologia al servizio dell’uomo di oggi, che parla nello spazio ma perché cerca il tempo che dona senso e pienezza a questo sfuggendo dalla tentazione di un orizzonte limitato. Grazie, spero che la collaborazione tra le Facoltà, tra queste e l’Università, cresca per trasmettere l’umanità di Cristo che rende tutti più umani e tutti fratelli.

Palermo, Cattedrale
19/10/2022
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