Riflessione all’Assemblea Diocesana Chiesa e città degli uomini nell’ambito del Congresso Eucaristico Diocesano 2017

Concludere un incontro è difficile, perché in realtà è riaprirlo. Debbo ringraziare di cuore quanti hanno lavorato per preparare questa assemblea e si sono messi a disposizione perché tutti ci sentissimo accolti, a casa, qui nella Basilica di San Petronio, il nostro protettore. Saluto tutti. Vorrei salutare i sindaci, ad iniziare da Virginio Merola, Sindaco dell’Area Metropolitana e con lui i rappresentanti dei cittadini. La vostra presenza per noi non è formale e istituzionale. Voi rappresentate quella città degli uomini a cui la Chiesa vuole guardare oggi, rinnovando l’attenzione di sempre. Saluto anche in particolare il rettore dell’Università, per il significato particolarissimo che questa ha per Bologna, per la presenza di 90.000 ragazzi, per l’apertura al futuro che essa da sempre rappresenta. Ringrazio le testimonianze che ci hanno aiutato a ascoltarla, a capirne i tratti attuali, le ricchezze e i problemi, quelli evidenti e quelli, i più insidiosi, invisibili o che noi non vogliamo vedere. In realtà il ringraziamento è per tutti, perché oggi abbiamo messo insieme il lavoro dei mesi scorsi di dialogo tra noi per aiutarci a capire meglio e a capire assieme. Abbiamo voluto farlo sinodalmente, parlando in tanti, con modi e soggetti diversi, ascoltando. Oggi abbiamo allargato ancora di più il nostro dialogo. E questo è oggi il grande valore di questa assemblea! Farlo è faticoso, ma è l’unico modo perché cresca tra noi qualcosa di vero e che ci unisca nel profondo. La comunione è fondamentale per la Chiesa e per la città. Non vogliamo sia solo in alcuni momenti straordinari, come per esempio avvenne nel terremoto o di fronte a tragedie incancellabili come le ferite delle stragi che la nostra città porta. Siamo nel pieno del Congresso Eucaristico, un momento importante, con il quale misuriamo il nostro cammino. Siamo aiutati a contemplare il mistero della presenza di Cristo nell’eucarestia, di Dio che si offre, pane di amore, di vita che non finisce e che insegna a vivere, presenza che orienta e rafforza. Riscopriamo lo stesso Corpo nei suoi fratelli più piccoli. Condividiamo il pane del cielo e questo ci aiuta a condividere quello della terra. Nella città si nasconde la presenza di Dio. I cristiani aiutano a svelare questa presenza e la cercano perché quella che contemplano nel mistero del Corpus Domini la riconoscono concreta nel Corpus Pauperum e nel prossimo.
San Petronio è il nostro protettore. Di chi? Di tutti! L’amore dei cristiani non filtra mai gli interlocutori, non pone condizioni, fa sempre il primo passo verso il prossimo, non considera nessuno straniero. Tutta Bologna si identifica con lui e con questa sua casa da sempre civica, in un’appartenenza che unisce profondamente la Chiesa e la città degli uomini. La Chiesa non può pensarsi senza la città degli uomini. E’ il luogo in cui essa vive, potremmo dire, dove trova se stessa. Tutti, anche la Chiesa, capiscono chi sono solo incontrando l’altro e uscendo all’aperto. Perché Petronio protegge? Non era certo il più potente secondo la logica di forza degli uomini! San Petronio protegge perché discepolo di Cristo, aiuta tutti, non si preoccupa di difendere il suo ma si preoccupa del noi e trasmette quella forza e quella intelligenza di amore che lo Spirito ha donato. Il cristiano non possiede la città, la serve.
Il cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia. Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei. “L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci «a portare i pesi gli uni degli altri» (EG67). L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.
L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha “perché soffro tanto” o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: “A me che importa?”, “io che c’entro?”, “non è possibile!”. Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. “Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo” (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.
Questa assemblea contiene le piazze di tutte le nostre città e paesi, anche i più piccoli. Tutte le comunità sono importanti e amate. A Gerusalemme i discepoli uscirono sulla piazza ed iniziarono a parlare e rendendosi così conto che sapevano parlare a tutti, che tutti ascoltavano e soprattutto capivano. Certo, all’inizio avevano paura, tanto che stavano chiusi, tra loro. Ci sarà stato chi pensava inutile uscire, che farlo li avrebbe confusi tanto che non avrebbero più saputo chi sono. Qualcuno avrà elencato tutti rischi possibili, i pericoli, invocando la necessità di restare al chiuso come se sono i muri a proteggere e non l’amore. Qualcun altro voleva un programma dettagliato, chiaro, definitivo, sicuro, per paura dell’imprevisto. Qualcuno pensava che il mondo non si meritava nulla, studiava solo le parole per spiegargli gli errori perché andava punito per quello che aveva fatto a Gesù. Qualcuno sperava di continuare le discussioni tra loro, perché prima bisognava finire quell’interminabile ma appassionante confronto su chi fosse il più grande oppure imparare bene quello che è necessario per affrontare la piazza. Qualcuno avrà pensato che tanto tutto era inutile, che non sarebbe cambiato nulla, che era meglio pensare banalmente a quello che li riguardava. Qualcuno si era attrezzato bene dalla finestra e osservava e giudicava tutto e tutti dalla sua stanza.  Lo Spirito, che è l’amore, spinge invece ad uscire. La Chiesa non vuole guardare da lontano, paurosa e orgogliosa allo stesso tempo. Anche se avessimo le idee giuste, senza l’incontro non nasce nulla. E l’incontro riguarda ognuno e tutte le nostre comunità. Se non siamo per strada, se non visitiamo, se non ascoltiamo, se non guardiamo negli occhi, se non tocchiamo, se non ci facciamo carico, non capiamo per davvero, il prossimo non ci capisce. Prossimità per riconoscere l’altro. E perché accada bisogna uscire da quelle mura che sono i pregiudizi, le abitudini, la scontatezza, il narcisismo religioso. Il luogo della Comunità è la strada. Lì dobbiamo affrontare gli imprevisti, ma anche troviamo la nostra vera forza, quella per cui ogni incontro diventa grande se siamo piccoli, cioè umili.
Questa sera abbiamo ascoltato anche tanti problemi. Sono sempre nuovi. Noi non vogliamo affatto immaginare una città che non esiste e pensiamo che ogni città degli uomini può cambiare! E parlare dei problemi che ci sono non significa mai minimizzare le cose che facciamo già! Anzi. Siamo consapevoli di appartenere ad una delle regioni del nostro paese e dell’Europa con tantissima storia e più in crescita. L’accoglienza è la nostra forza e ereditiamo tanta sapienza umana e spirituale! Ha detto il Presidente Mattarella a Pieve di Cento, recentemente, che solo chi si pensa come una comunità può realizzare quello che è stato fatto per la ricostruzione. Anche per questo sono tanto contento – anche se non nascondo che sento il dispiacere del ritardo –per il recente accordo sul lavoro, soprattutto perché ha coinvolto tanti soggetti diversi, tutti uniti però per cercare assieme e singolarmente una soluzione a questo urgente e decisivo problema. Questo è il metodo con cui si possono affrontare i problemi. Finite le ideologie non vogliamo inizino i personalismi! E dobbiamo anche dire: quante occasioni sprecate, quando non dialoghiamo e sciupiamo i tanti mezzi per “scarsi e rachitici fini”.
Per noi la città degli uomini non potrà mai essere un luogo anonimo. Al contrario! (EG210). “Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!”. Bologna e tante nostre città, scusate se insisto ancora su questo, da sempre hanno avuto, anche nella loro stessa caratteristica architettonica, il gusto di essere accoglienti e protettive per tutti, ad iniziare dal forestiero. Humanitas e Dignitas fanno tanto parte di essa. I portici altro non sono che i corridoi di questa casa comune. Ecco cosa vuole la Chiesa, con fermezza e con tanta vicinanza. Perché Dio è nella città. (EG71). “La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso”.
Le nostre città sono cambiate. Per certi versi dobbiamo scoprirle di nuovo e interrogarci sul loro futuro e che cosa questo ci chiede! A Bologna ogni dieci anni cambia uno su cinque dei suoi abitanti! Quasi la metà degli appartamenti è abitata da un single. A Bologna risiedono 60000 stranieri, che lo sono come definizione, ma non possono esserlo per i discepoli di Colui che si riconosce nei forestieri e dice che qualsiasi cosa abbiamo fatto a uno di loro la abbiamo fatta a Lui. Ottomila ci sono nati e speriamo abbiano presto regole chiare per diventare anche di diritto quello che sono già, italiani. C’è tanta mobilità. Ogni anno da Bologna vanno nell’area metropolitana più di 4000 persone. La mobilità spesso significa anonimato.
Non possiamo accontentarci di risposte burocratiche. Queste sono le più pericolose, perché danno la convinzione, la presunzione, di avere fatto. C’è tanta sofferenza nascosta. La vediamo solo se ci fermiamo, se andiamo vicino, se non la accettiamo come normale o se non aspettiamo solo che passi. Quante sfide. Quanta insopportabile ineguaglianza. Sentiamo la passione che nasce dalla sofferenza di tanti. L’Italia è sempre più anziana, con l’ascensore delle classi bloccato e sette «Millenials» (i giovani nati tra i primi anni Ottanta e il 2000) su dieci bloccati a casa con i genitori (tradotto in numeri 8,6 milioni di persone tra i 25 e i 34 anni che non abbandonano il tetto di mamma e papà). Il 6,5% della popolazione rinuncia alle visite mediche per motivi economici. Le residenze degli anziani spesso rischiano di essere luoghi poveri di vita. Gli anziani non sono utili, non producono ricchezza e li scarichiamo. La qualità della città degli uomini si giudica proprio nel suo modo di trattare gli anziani. E non basta – anche se è tanto – garantire servizi. Bisogna garantire vita, interesse. Nessuno è mai solo una pratica. E poi il sostegno alla famiglia che include loro e il futuro che non c’è, gli anziani di domani che non nascono oggi perché senza aiuti seri vince la paura. La casa e i tanti, troppi senza casa. Quelli che si isolano nei loro problemi e non vediamo più, come la signora in via Altabella, trovata morta dopo settimane nella sua casa. La mobilità del lavoro che procura sofferenza pesantissime in chi non riesce ad entrare oppure ne esce in età matura. Gli stranieri e i profughi, per i quali è necessaria una chiarezza e continuità di sistema, che guardi al futuro e non al passato, che dia sicurezza e diritti, che faccia scoprire l’individuo e dia l’opportunità che cerca. Se c’è, capiremo che tutti sono utili e nessuno ci porta via niente. Altrimenti percepiamo tutti come nemici. So che facciamo tanto. Ma sentiamo la spinta a fare tutti di più.
Oggi diciamo che le risposte dipendono anche da noi! L’invito di dare da mangiare è rivolto a “voi”. Cioè “noi”. “Voi stessi date loro da mangiare”. In un momento in cui è facile credere che il problema non ci riguarda o che debbo pensare a me, la Chiesa vuole dire che sente tutta la responsabilità di trovare il pane per chi ha fame e che lo offre gratuitamente. La gratuità è una dimensione fondamentale per vivere bene nella città, soprattutto quando sembra che tutto abbia un prezzo e il consumismo ci ha reso tutti più diffidenti e calcolatori. La gratuità non è un problema di mezzi! Mi ha sempre sorpreso l’avarizia dei ricchi! La Chiesa ha sempre solo cinque pani e due pesci, ma crede che solo dividendo il pane si moltiplica. Vorremmo che tutti possano contemplare nelle nostre comunità e nelle nostre persone quel volto di una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza che Papa Francesco ha indicato come programma alla chiesa italiana. Lo aspettiamo qui a Bologna, in quella che sarà la prima giornata della Parola e la conclusione del nostro CED. La Parola da cui nasce e si ricrea tutto, voce di quel Corpo che contempliamo! Vorremmo che il 1 ottobre ci confermi in questa scelta e vogliamo presentargli una Chiesa così. “Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura”, ci chiedeva a Firenze.Farlo inizia da chi resta ai margini. Le nostre Comunità possono essere ancora di più una geografia affettiva nella città per tanti che hanno bisogno di protezione e relazione. La Chiesa non pensa affatto in termini buonisti, come quelli che in nome di falsa misericordia fasciano le ferite senza prima curarle; che assistono, ma senza capire e combattere le cause e senza trovare le soluzioni, anche a costo di sacrificio.
Abbiamo bisogno di vere belle notizie! Non sono quelle che hanno gli onori della cronaca, ma quelle che cambiano la vita per davvero. Tutti possiamo dare questa bella notizia. Infatti c’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto. Diceva Papa Benedetto: “La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso! I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri.Spesso ci lamentiamo dell’inquinamento dell’aria, che in certi luoghi della città è irrespirabile. È vero: ci vuole l’impegno di tutti per rendere più pulita la città. E tuttavia c’è un altro inquinamento, meno percepibile ai sensi, ma altrettanto pericoloso. È l’inquinamento dello spirito; è quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia… La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili. La più bella notizia per noi è Gesù. Lui ci insegna a credere e ad essere noi stessi, tutti, una buona notizia di amore per gli altri, per i tanti che abitano la città degli uomini.
Abbiamo bisogno di buone notizie, vere, per combattere la paura e per prevenire il male. Non vogliamo restare prigionieri della disillusione che porta ad accontentarsi e a non cercare il futuro. Siamo in un tempo di paura. I rischi, le minacce, la crisi, i mutamenti. Noi vogliamo costruire oggi quello che saremo domani. Il cristianesimo è vicinanza, comunità, popolo, insieme. La missione è incontro e costruzione di amicizia su scenari del mondo che si scoprono nuovi o almeno rinnovati. Vogliamo trasformare deserti in foreste! Quanti deserti nelle città. Avvicinarsi a qualcuno è sempre un rischio, ma anche un’opportunità: per me e per la persona alla quale mi avvicino. Facciamo che non manchi mai la relazione, la prossimità, cioè l’amicizia sociale. Il nostro parlare sia semplice e amico verso tutti. Apriamo il cuore. La prima bella notizia possiamo essere ognuno di noi, con il nostro sorriso, con la nostra gentilezza, con la visita, con l’ascolto, con l’elemosina, con l’aiuto concreto. Non restiamo sempre ad aspettare, non calcoliamo tutto, non restiamo diffidenti e non ci arrendiamo alle prime difficoltà. Vogliamo città degli uomini dove tutti si comprendano e nessuno sia straniero. I prodigi della Pentecoste che si possono realizzare sono una solitudine sconfitta, l’abbandono riempito, lo scarto che diventa al centro delle attenzioni, lo straniero che diventa un fratello, un disilluso che rinasce. Questo non è il libro dei sogni, ma proprio i cinque pani che già abbiamo, che non dobbiamo andarci a cercare e possiamo distribuire a tutti. Niente è impossibile a chi crede! Apri le porte del cuore e il mondo si aprirà all’amore. Non avere paura di sbagliare, non fare nulla è il vero sbaglio. Non cercare subito i risultati. Farlo è già la risposta e l’efficacia! Noi non siamo dei volontari che si sacrificano, ma operai di umanità toccati dall’umanità di Gesù.
Chiesa e città sono compagni di viaggio, che tendono alla stessa meta di salvare la persona. Il dialogo di oggi non è una tattica o una strategia. E’ la visione del futuro e la scelta di iniziare a costruirlo. Sento la consolazione di vedere già tanti frutti, la conferma del talento che abbiamo e anche di come i cinque pani regalati sfamano tanti e producono frutti di accoglienza, di solidarietà. Sento l’urgenza di farlo per i tanti che aspettano. Sarà la sfida del nostro futuro. Sento anche la gioia di poterlo fare e di poterlo fare assieme, anche se a volte la fatica e la stanchezza ci invitano a chiuderci. Diceva spesso Mons. Capovilla: Tantum aurora est. Sì, siamo solo all’inizio.

08/06/2017
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