S. Messa XXVII Giornata mondiale del malato

Oggi celebriamo Maria e per questo ricordiamo chi é malato. La Chiesa è una madre che rende presente la tenerezza e la compassione di Gesù. Egli si commuove per loro, cambia programma di fronte alla richiesta di guarigione. Gesù non è un freddo dispensatore di ordini e sicurezze, ma un amico appassionato, che per Lazzaro affronta il rischio di essere ucciso. Egli tocca fisicamente il corpo. La sofferenza domanda sempre protezione e Gesù è il medico buono. Non cerca di fare quello che può e si accontenta di questo, perché vuole guarire, non starsene tranquillo lui; non scappa dal dolore degli altri come temendo un contagio. Purtroppo molte volte la malattia è considerata come una colpa, confermata da commiserazione, a volte incomprensione, poca sensibilità. In un mondo del benessere ci si vergogna, quasi ci si deve giustificare, della propria fragilità. Alcuni non la capiscono affatto e spesso invece di suscitare istintiva solidarietà, attenzione, tenerezza, la malattia rivela, in maniera ancora più evidente, la cattiveria del non avere cura. Chi non ha attenzione alla fine è complice del male, che trasforma il corpo e ne rivela il limite. Se poi parliamo di quel morbus che è la senectus, la vecchiaia, come scriveva Terenzio, vediamo quanti vecchi sono esposti all’arbitrio, alle contenzioni, a diritti che sono loro negati de facto.
La giornata del malato ci riguarda tutti, sia come soggetti che come oggetti, e rivela anche la qualità della nostra fede e delle nostre comunità. Gesù dona ai suoi il potere di guarire. Ci accorgiamo di averlo e lo usiamo se guardiamo l’altro con gli occhi di
Gesù, se mettiamo in pratica quell’indicazione così chiara del Vangelo che apre ( o chiude) la via della salvezza: “Ero malato e sei venuto a visitarmi”. Gesù non entra nel merito delle cose che avevi da fare; delle difficoltà che ti provocava incontrare la sofferenza o del banale pensare a sé che te lo ha impedito. Non sei venuto a trovarmi, dice Gesù oppure, al contrario, sei venuto. Nella sofferenza si rivela la nostra fraternità e quanto ci vogliamo bene, perché non basta una dichiarazione di intenti o una facile verbale vicinanza. Una madre non lascia mai solo il figlio se è malato, lo difende come può, fa propria la sua sofferenza, lo protegge dalla condizione peggiore della stessa malattia che è la solitudine. Non possiamo accettare che nessuno sia scartato perché non perfetto: cercheremo parole di amore vero non quelle vuote, banali, scontate, che appaiono amare o a volte ridicole, pensando allo strappo doloroso che è la malattia. E la sofferenza chiede di essere aiutata, di non essere mai lasciata sola, di affrontarne le cause e di trovare le soluzioni, se possibile, di renderla sempre motivo di amore e di illuminarla con la speranza. Se la sofferenza non viene accolta e accompagnata non troveremo mai neppure delle soluzioni vere alle cause. Gesù non lascia mai solo nessuno nel suo dolore: Lui è il samaritano che si fa carico della sofferenza e dona valore all’albergatore! Così trova il suo prossimo, cioè anche qualcuno che lo farà a lui se lui si trovasse nelle condizioni dell’uomo mezzo morto. E’ quando siamo deboli che siamo forti e quando rendiamo forte la debolezza degli altri manifestiamo la straordinaria forza dell’amore che viene da Dio. Giulia, malata di tumore, andò a Lourdes ma non chiese la guarigione per sé ma la grazia di essere sempre accompagnata dall’amore di Gesù e di Maria. Tutti possiamo pregare e consolare chi è nella malattia, che produce tanta sofferenza e isolamento. Solo l’amore può sconfiggere o limitare. Tutti possiamo dire: “Io guarisco l’altro e mi lascio guarire dall’altro”. La misericordia è il lembo del suo mantello ed ognuno di noi può essere il veicolo attraverso il quale questa arriva. Di fronte alla sofferenza ci è chiesto qualcosa di più. Lo esprimeva con tanta chiarezza San Camillo de Lellis, un santo che era stato giocatore e uomo d’armi e che aveva una tenerezza da madre per i malati, che indica una precisa e minuta descrizione dei modi e delle forme del rapporto coi malati, da come rifare i letti, servire i pasti, fare le pulizie, perché la misericordia non è un buon sentimento, ma intelligenza e molto servizio pratico. “I poveri infermi sono pupilla et cuore di Dio et… quello che facevano alli detti poverelli era fatto allo stesso Dio”. Lui malato non si lamentava, non faceva la vittima ma guariva e dedicava la sua vita a trasmettere quell’Amore che aveva ricevuto da Dio. Donava loro il sorriso e generava tanto sollievo e fiducia. Desiderava avere con sé gente che “non per mercede, ma volontariamente e per amore d’Iddio gli servissero con quell’ amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi”.
Il tema della giornata di questo anno è molto chiaro: Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. “La cura dei malati ha bisogno di professionalità e di tenerezza, di gesti gratuiti, immediati e semplici come la carezza, attraverso i quali si fa sentire all’altro che è “caro”. Il dono è vera sfida all’individualismo e alla frammentazione sociale, perché la malattia isola, ma l’amore che vince la solitudine è ancora più importante e sentito. Il servizio alle persone deve essere quotidiano come il mangiare e il bere. Non occorre enumerare tutte le forme di servizio. Intorno a noi ci sono tanti soli, smarriti, afflitti, bisognosi, ammalati e anziani che aspettano aiuto. Il servizio reciproco é, in sostanza, una forma di ufficio divino, una forma di preghiera. Mai mettere in discussione la vita e la sua difesa. Gratuitamente significa anche non cercare la ricompensa, che significa anche considerazione, convenienza, interesse. Quanto è ingiusto speculare e quanto è ancora più inaccettabile farlo su chi è malato, addirittura su chi muore. La giornata mondiale si tiene quest’anno a Calcutta, in ricordo di Madre Teresa. Ella raccontò: “A Melbourne andai visitare un povero vecchio la cui esistenza era ignorata da tutti. La sua stanza era disordinata e sudicia. Tentai di pulirla, ma egli si oppose: “La lasci stare, sta bene così”. Nella stanza c’era una magnifica lampada, coperta di polvere: “Perché non l’accendi?”, gli chiesi. “A che scopo, se nessuno viene a trovarmi?”, mi rispose, “Io non ne ho bisogno”. Allora gli dissi: “L’accenderesti se le suore venissero a trovarti?”. E lui: “Sì. Pur di sentire una voce umana in questa casa, l’accenderei”. Alcuni giorni dopo ricevetti da lui questo brevissimo messaggio: “Di’ alla mia amica che la lampada che accese nella mia vita continua a brillare”. Noi dobbiamo essere le sorelle che permettono a tanti che hanno la lampada della loro vita spenta di riaccenderla perché si sentono amati e protetti. Ella chiedeva a tutti: “Non permettere mai che qualcuno venga a te e vada via senza essere migliore e più contento. Sii l’espressione della bontà di Dio. Bontà sul tuo volto e nei tuoi occhi, bontà nel tuo sorriso e nel tuo saluto. Ai bambini, ai poveri e a tutti coloro che soffrono nella carne e nello spirito offri sempre un sorriso gioioso. Dai a loro non solo le tue cure, ma anche il tuo cuore”.

17/02/2019
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