Saluto al Santo Padre Francesco

Padre Santo,
Grazie. Esprimo così la gioia di Bologna e di tutta la Regione Emilia Romagna per la sua presenza in questa città che è un crocevia di tante strade. Anche per questo la sua identità più profonda è l’accoglienza. Grazie perché ha voluto passare anche Lei qui.
La Sua presenza oggi a Bologna è il culmine del nostro Congresso Eucaristico, intitolato: “Voi stessi date loro da mangiare” – Eucaristia e Città degli uomini ed apre, con la prima Domenica della Parola il cammino dell’anno prossimo. Questa piazza è come il cuore della nostra città. Ci accoglie San Petronio, ricordato come Pater et Protector e raffigurato sempre proprio con la città sulle sue mani. La Chiesa vuole essere una Madre che protegge e cura tutti i suoi figli. Bologna è un albero meraviglioso che ha radici lunghissime e sono radici cristiane, diceva il Cardinale Biffi. La Chiesa vuole vivere nella piazza, nelle strade della città degli uomini, perché non perde la sua verità mischiandosi ad essa, anzi, diventa come quella fontana di cui parlava San Giovanni XXIII che dona acqua a tutti, specialmente a chi ha più sete.
A Bologna all’inizio del secolo scorso furono abbattute tutte le mura che chiudevano la città. Bologna voleva crescere. Chi guarda al futuro abbatte i muri, non li costruisce. Dobbiamo tanto sconfiggere i muri più pericolosi, invisibili e tanto resistenti, quelli della solitudine e dell’individualismo, del pregiudizio e della indifferenza. Furono lasciate intatte, però, solo le porte di accesso alla città, 12, segno di accoglienza e pegno della nostra vocazione alla città celeste.  Bologna è la città dei portici. Sono i nostri ponti, che la uniscono e facilitano l’incontro e il cammino. Essi sono come i corridoi di una città che vuole essere casa e di una casa che è aperta alla città. In termini di convenienza economica si potrebbe dire che è spazio sprecato o per alcuni pericoloso! Ma non è mai perso quello che unisce e protegge ed il vero pericolo è non averne spazi così! La città degli uomini non può perdere “l’amicizia sociale” che la fa diventare davvero città, una comunità e non un insieme di tante torri, bellissime, ma anche chiuse e in fondo isolate. I portici sono un pezzo di strada che entra nelle case e viceversa, una città che vuole farsi casa per chiunque la percorre. E’ come la dilatazione della soglia della casa verso la soglia del cielo.
Su questa piazza si affacciano anche il Comune e l’Università, che è la più antica del mondo, che ha rappresentato come il primo “Erasmus” della storia. Vuole continuare a trasmettere e cercare quell’umanesimo, così tanto ispirato dagli insegnamenti cristiani e che anche stimola la Chiesa stessa. L’Europa e il mondo intero ne hanno tanto bisogno. E’ la nostra vera identità. Qui, prima città in Europa, vennero liberati nel 1257 i suoi servi, 5855, riscattati dal Comune, che pagando le spese li rese persone e ne scrisse i nomi in un libro che si chiama, non a caso, Liber Paradisus. E’ un vanto ed una responsabilità per noi, perché oggi la nostra Libertas significa cercare l’uguaglianza e la fraternità e scrivere tanti altri Liber che strappino dall’inferno della povertà e offrano a tutti e sempre il diritto di essere persona. Qui la cultura religiosa e quella civile hanno saputo affrontare le grandi e tragiche sfide della guerra e della ricostruzione fino ai cupi anni del terrorismo e delle stragi purtroppo senza verità e oggi sono chiamate a confrontarsi in maniera alta ed efficace davanti alle nuove emergenze del nostro tempo. Qui le forze del lavoro cercano nella concertazione tra loro il metodo per riparare l’ascensore sociale che sembra rotto, per rinnovare la grande tradizione di laboriosità e di cooperazione solidaristica di queste terre e per un’economia che abbia al centro l’uomo.
Pensando a questa città, incoraggiato dalla tradizione di solidarietà e di impegno per il bene comune di cui la nostra gente è tanto ricca, sento necessario pronunciare una parola: speranza. E’ il nostro impegno ed anche la nostra scelta, perché la speranza ci chiede di comprometterci e sacrificarci per non deludere, perché non è vago ottimismo. Vogliamo speranza per non rubarla ai giovani con un realismo senza passione. Chi ha speranza non si arrende, affronta con più coraggio le inevitabili difficoltà e sfide e non accetta la logica del “a me che importa” o il veleno della rassegnazione che rende tutto impossibile e difficile. La speranza ci chiede di confrontarci, nei diversi ruoli e responsabilità, per costruire sulle macerie della crisi, della disillusione, della sofferenza. La Chiesa oggi, nel cuore dell’anno eucaristico, vuole rivolgersi a tutti e pronunciare la parola speranza, che vede quel che non è ancora ma che sarà e ama quel che non è ancora e che sarà.
Oggi dopo tanto tempo, era il 1222, un altro Francesco visita questa nostra città. San Francesco parlò proprio nella piazza antistante il palazzo comunale. E come commentarono allora, le sue parole “di angelo e non di uomo”, furono “come saette acute che trapassano il cuore degli uomini” perché parlava delle cose di Dio a modus concionandi, cioè come si usava nelle assemblee pubbliche, diremmo oggi laicamente, in modo che tutti potessero comprendere. Grazie Papa Francesco perché anche lei parla così e le sue parole e i suoi gesti aprono tutti alla speranza, suscitano ideali e entusiasmo e fanno conoscere Dio amico degli uomini e dei poveri. La Madonna di San Luca ci aiuta e ci protegge.

01/10/2017
condividi su