Santa Messa Crismale

E’ sempre l’amore ardente di Gesù, che desidera celebrare la Pasqua con i suoi, che ci riunisce nella nostra Chiesa cattedrale. Con Lui non siamo soli. Non siamo mai lasciati soli. Non lasciamoci mai soli e non chiudiamoci in amara solitudine, sottraendoci a questa fraternità sacramento dell’amicizia o facendo mancare il nostro cuore e la nostra mente, anche solo con la sufficienza. Chiedo perdono se questo è avvenuto per causa mia, perché servizio principale del Vescovo è proprio quello di custodire la comunione con l’unico Pastore e tra noi, legame che ci permette nella nostra dispersione di essere soli fisicamente ma mai isole. La nostra comunione non è certo perfetta o ideale ma è la nostra, segnata dai limiti evidenti, facili da identificare, della nostra umanità ma anche santa perché proprio in essa si manifesta la sua grazia. Amiamola e rendiamola migliore. Nella comunione ringraziamo il Signore per quanti arrivano a importanti momenti del loro cammino, dallo straordinario sacerdote settantacinquenne Ernesto Tabellini, che sta per raggiungere un’anagrafe personale a tre cifre, a quelli che questo anno ne hanno “solo” 50 o 25 o a chi celebra il primo. Acquistiamo tutti un cuore saggio contando assieme a voi i nostri giorni (Ps 90,12) e ci aiutate ad abbracciare tante stagioni della nostra vita e a comprendere la larghezza di un unico cammino, di un “oggi” che si compie sempre che è nostro e del Signore. Ricordiamo con tanto affetto chi è “emerito” e che continua sempre, con forse maggiore generosità, ad amare e servire la Chiesa. Ricordiamo anche chi è lontano – e la comunione deve crescere proporzionalmente alla distanza! – a Mapanda, in Cambogia o nella Terra Santa. Il loro esempio ci aiuta ad allargare il cuore, ad essere ciò per cui siamo stati generati dallo Spirito Santo, fratelli universali e a volere una Chiesa davvero missionaria. Con loro ricordiamo anche i fratelli che provengono da altre chiese e che per studio o ministero sono con noi e ci aiutano con il loro servizio. Infine ricordiamo chi è malato – non lasciamo mai nessuno senza le nostre visite –e Raffaele Buono, tra gli emigranti vecchi e nuovi in Svizzera e Matteo Prodi, nelle povertà del nostro meridione.
Se ci liberiamo dal filtro delle abitudini, che non ci fanno accorgere delle messi che già biondeggiano, suggeriscono giudizi vecchi che rendono vecchio anche il nuovo, sconsigliano audacia e spengono l’entusiasmo; se viviamo oggi la gioia del Padre che rende nostro tutto quello che è suo e quindi fa diventare mio non solo quello che mi riguarda o che “faccio io” (con le ansie da prestazione che servono a me e non alle comunità), ecco che contempliamo pienamente il dono della nostra vocazione. La domanda del rito, diretta e decisiva, ci interroga se vogliamo lasciarci guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i nostri fratelli. Farlo ci conferma in un amore gratuito, libero da convenienze e calcoli che lo immiseriscono. Ritroviamo il senso interiore, personale e sempre nuovo delle nostre promesse, sapendo che Dio è sempre tanto più largo del nostro cuore. Esprimere insieme la nostra volontà, nonostante la nostra indegnità e poterlo fare assieme ci dona forza e rinnovamento, perché facendo la sua volontà troviamo la nostra e viceversa. Tra poco anche tutti i nostri fratelli e sorelle pregheranno per noi, invocando il Signore di effondere su di noi l’abbondanza dei suoi doni, perché siamo fedeli ministri di Cristo, sommo sacerdote. La preghiera vicendevole è la prima opera della comunione, espressione e fondamento di amore fraterno.
E’ una grazia oggi vedere il nostro presbiterio. L’unità è data dall’altare, che è il centro anche fisico della nostra comunione e della nostra missione, la stessa che contempleremo questa sera con le nostre comunità. Come c’è un solo altare così c’è un solo presbiterio, un solo sacerdozio, una sola comunione che si riflette nelle nostre singole realtà. Di questa comunità fanno parte tutti i nostri fratelli e sorelle, i poveri, ai quali siamo mandati a portare il lieto annuncio. Ecco la nostra bellissima casa, che è quella di sempre e sempre nuova, santuario della presenza di Dio, da dove uscire e dove tornare, dove accogliere e condurre il prossimo, così necessaria per comprendere chi siamo e dove annunciamo il Vangelo a tanti che in modi diversi lo cercano. Noi siamo chiamati ad essere gli uomini della comunione. E’ una gioia servirla, chiedere di servirla, insegnare a servirla, dando fiducia e responsabilità sempre. Siamo paterni e non paternalisti, comportandoci da fratelli sempre e con tutti. In questa stagione della nostra vita Diocesana, con la trasformazione di alcune forme secolari di presenza della Chiesa nella città degli uomini, dobbiamo cercare e difendere l’unità tra noi e nelle nostre comunità, non accettando mai, anche per qualche mal compreso zelo, nessuna logica di divisione. Doniamo serena sicurezza ai nostri fratelli, senza contristare mai lo spirito. Seminiamo la Parola di Dio con speranza nel cuore degli uomini. Se il Signore vuole, e sempre solo per grazia, saremo anche raccoglitori. La comunità è la nostra famiglia, nella quale acquista forma concreta l’amore di Dio, così importante in una generazione individualista e con pochi legami ma sempre assetata di amore vero. Tante solitudini sono una grande domanda per le nostre comunità. Amiamo e costruiamo la comunione con gioia e senso dell’umorismo, “positivi, grati e non troppo complicati”, “senza complicare ciò che è così semplice e regalando quello che libera e completa l’uomo”. Conserva il buon umore non chi non ha problemi, l’ingenuo, chi non si rende conto, ma chi si affida alla provvidenza del Padre che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo. Biffi scriveva che il senso dell’umorismo – se è rettamente e compiutamente inteso come la risultante del distacco dalle cose e della carità – è “il fondamento e il vertice di una seria vita religiosa”. Il buon umore è la gioia ordinaria che possiamo regalare a chiunque, che avvicina tanta umanità scossa e impaurita, piena di rancore e che si sente vittima, perché colpita dalle onde di questo mondo. Scegliamo la via della semplicità evangelica, esigente e radicale come l’amore di chi dona tutto di sé, restituendo la gioia di essere persone tanto amate da Dio e dagli uomini senza merito. E’ la nostra consacrazione che ci offre una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza incomprensibile secondo i criteri mondani. “Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,19)
Mazzolari, che ricordiamo a sessanta anni dalla sua morte, pregava così: “Signore abbi pietà dei desideri ardenti dei tuoi sacerdoti e dà loro il segreto di comprendere la sofferenza e il divino potere di distribuire con povere parole umane le tue ineffabili consolazioni. Che lo schianto di non potere fare abbastanza per la salvezza del tuo popolo dia loro lo slancio di fare molto. Signore, tu che sai dare conforto pari alla nostra pena e commisuri la luce e il soccorso al nostro bisogno, abbi pietà dei tuoi sacerdoti oppressi sotto il peso delle proprie insufficienze. Che l’inguaribile tormento del confronto tra la messe e l’opera, tra l’ideale e la fatica, non li avvilisca, ma li sproni a divenire sempre meno indegni della loro divina vocazione. Così sia”.

18/04/2019
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