Te Deum di fine anno

Questa celebrazione dell’ultimo dell’anno è di lode ma è sempre unita ad un senso di tristezza, aumentata dalle tragedie che investono la convivenza tra i popoli. Le avversità personali ci possono aiutare a capire e a fare nostre quelle di interi Paesi. Nello scorrere dei giorni misuriamo anche l’assenza amara di quanti non sono più accanto a noi, che sono entrati in un tempo diverso, fuori dal tempo. Ringraziamo per l’anno trascorso e chiediamo speranza e pace per quello che viene. Il motivo della lode non è perché tutto va bene o perché tutto è andato bene ma perché tutti i nostri giorni (in realtà sempre troppo pochi) si aprono e si chiudono con la presenza di Dio. La prima e l’ultima lettera del nostro alfabeto è la sua parola di amore. Non ci lascia soli, in balia delle pandemie che fanno sperimentare la vertigine del sentirsi perduti di fronte a forze terribili, spesso imprevedibili.

È sempre più grande della nostra debolezza e della volontà di molti. Ringraziamo Dio di essere stato dentro il nostro cuore per farci sentire il suo amore, di essere accanto a noi per sostenerci, davanti per guidarci, dietro per proteggerci. Ringraziamo personalmente e assieme, sentendoci uniti tra noi e sentendo qui con noi tutta la città degli uomini. Il nostro ritrovarci esprime proprio questa relazione di comunità: non siamo una folla anonima e non siamo, e non vogliamo essere, nemmeno pezzi che si ignorano dimenticando di abitare l’unica casa comune, ad iniziare, per noi, dalla città, le città, i paesi della nostra Diocesi di Bologna, uniti tra loro non per affermazione di una parte ma perché solo insieme ognuna comprende il suo valore e ne acquista. Non assecondiamo atteggiamenti, parole e gesti di esclusione, di intolleranza, di ignoranza aggressiva, di denigrazione distruttiva dell’avversario, di offesa, come quelli di chi per esistere deve parlare sopra gli altri o contro di loro. Siamo davvero sulla stessa barca!

Il Cardinale Caffarra ricordava come gli antichi usavano per misurare il tempo la clessidra. “Ci sono due modi di guardare la clessidra. Guardare i granellini di sabbia che lentamente, ma ininterrottamente, scendono fino a vuotare la parte superiore. Oppure guardare la parte inferiore che va gradualmente riempendosi, fino alla pienezza”.  Ci interroghiamo spesso su dove finiscono i granellini, capendo che non sono infiniti. La seconda parte della clessidra è ciò che rimane di noi. Niente va perduto. Questa consapevolezza ci sveglia dall’essere sonnambuli e ci libera anche dalla pericolosa euforia digitale che enfatizza ogni secondo e ci fa vivere come fuori dal tempo, inondandoci di cronaca ma fuori dalla storia, facendoci credere che possiamo andare ovunque, quando e dove vogliamo noi. I granellini finiscono. Per alcuni davvero troppo presto! Il Signore, Dio del tempo e della storia, eterno, ci aiuta a vedere l’altra parte della clessidra e ci insegna a non perdere tempo, il nostro tempo, il bene più prezioso che abbiamo che, come tante cose, capiamo solo quando finisce, come sa chi è investito da qualche avversità. Scegliamo quello che rimane, anche se in un’altra dimensione. Il tempo si conserva se è di amore. Ecco la differenza tra Chrónos, che ci trascina e ci divora, che si consuma e non genera vita, e il Kairós, cioè il tempo opportuno, il contenuto, il motivo per cui non scorre inesorabilmente. Se amiamo, tutto diventa Kairós, tempo opportuno, nel quale vediamo la grazia, cioè l’amore di Dio. Quando al centro c’è solo il nostro io, vorace predatore e consumatore di amore, il tempo ci passa addosso, le infinite esperienze non ci fanno crescere e capire, tanto che poi restiamo sempre uguali.

Chrónos non sa aspettare, consuma esperienze, spinge a misurare subito il risultato, la prestazione, a verificare le proprie capacità. Il Kairós è il senso profondo, il motivo per cui cerchiamo quello che resta anche se nell’immediato non ti dà nulla, quello per cui capisci cosa oggi mi e ci chiede il Signore, ilcompito e il dono che contiene. È un grande e triste inganno pensare di vivere come se la vita non finisse mai e come se vivere fosse consumare l’oggi, tipico del possesso enfatizzato dal consumismo, che finisce poi per farci sperimentare solitudine e abbandono. Il Kairós ci permette di vedere i tanti doni che spesso abbiamo, che a volte sprechiamo per abitudine, rassegnazione, fatalismo. Guai se non cogliamo nel presente l’occasione per dare amore, per fare vedere la nostra vera forza! Guai se facciamo qualcosa solo per apparire e affermare le nostre capacità, il personale protagonismo, e non per trovare la soluzione ai problemi, il dopo di noi! Guai se possiamo risolvere i problemi e invece li lasciamo insoluti per pigrizia, per presunzione o perché non cerchiamo le alleanze indispensabili per farlo! Lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato è un impegno che ci deve coinvolgere tutti, anche per restituire il tanto che abbiamo ricevuto. Stasera, quindi, vietato lamentarsi!

Ringraziamo per la vita, mai scontata e mai diritto, sempre un vero miracolo. Scegliamo di spendere i nostri giorni per guardare al domani e prepararlo per chi verrà dopo di noi. Mi sembra che il Kairós, l’opportunità, di questo tempo siano la speranza e la pace. Senza speranza non generiamo vita perché la paura e il fatalismo ce la fanno tenere stretta, ci spingono a consumarla per la nostra felicità individuale. Dio accende di speranza il nostro cuore, perché ha speranza sul mondo e su ognuno di noi. La speranza, però, ha un prezzo. Non si realizza immediatamente, anzi, forse, la vedremo pienamente realizzata solo alla fine di tutto. La speranza, però, fa vedere oggi quello che sarà domani. Il prezzo della speranza è l’amore, cioè il dono, la gratuità. Il seme non vede lui stesso il frutto, ma sa che ci sarà e che lo vedranno gli altri. Dentro il seme il fiore già c’è. Gesù ha speranza e il suo amore la realizza oggi. Le difficoltà sono motivo di speranza, non di delusione o di rassegnazione. Non siamo e non diventiamo invulnerabili ma forti di ciò che cambia la vita e la realizza: l’amore. Dio non è una regola ma una presenza viva che orienta le nostre scelte concrete. Cristiano, prima di essere un aggettivo, è un soggetto: è essere figlio e figlia, discepolo e discepola, fratello e sorella. Guai a svuotare il Vangelo di vita vera, finendo poi per “scegliersi dalle parole di Gesù qualcosa che ci piace senza accettare lui stesso e, a partire da lui, la totalità della sua testimonianza”, disse Papa Benedetto XVI che ricordiamo, nel giorno della sua salita al cielo, con gratitudine per il grande lavoro dell’umile operaio della vigna. Aveva detto: “Molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu” perché “il cristianesimo prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù” (12.XI.2012).

Oggi ci chiede speranza e pace. Speranza significa costruire e migliorare un sistema di accoglienza e di protezione della persona, amando la vita dall’inizio alla sua fine; non per qualcuno, ma per tutti, anche quando sembra non avere convenienza, perché la vita conviene sempre e non ha prezzo. Speranza è dare concrete opportunità a chi non le ha, adottare qualcuno perché possa crescere, studiare, come possiamo fare nei Paesi poveri o vicino a noi, aiutando nella scuola, nella formazione ad un mestiere o nell’opportunità a studiare chi non ha i mezzi. Manca speranza per tanti anziani troppo soli e poco protetti a casa nella loro fragilità. Manca speranza per i ragazzi che non riescono ad avere spazi adeguati per lo studio, speranza che significa risposte sicure per uscire dalla fluidità e dal precariato, in un mondo che sembra farti fare tutto quello che vuoi e poi ti lascia solo e incerto. Manca speranza per chi cerca casa, per chi lavora e non aspetta altro che di avere un luogo dove costruire una vita.

Manca speranza per i carcerati, segnati dal loro passato, poco aiutati ad essere diversi. Molti di loro, che potrebbero avere pene alternative, non ne possono godere per mancanza di alloggio. Manca speranza per i senza fissa dimora che restano con soluzioni troppo provvisorie. Manca speranza, che significa sicurezza, per le tante donne minacciate da uomini violenti e da un mondo che deve imparare la relazione, l’amore, il rispetto, la tenerezza, i sentimenti del dono e non del possesso. E la speranza ci fa chiedere con l’insistenza della preghiera, nel buio sconsolante della guerra e di un enorme dolore, il dono della pace per le terre bagnate dal sangue di Abele. Con speranza chiediamo di insistere perché in ogni guerra il terzo attore, che è la comunità internazionale e quindi per certi versi ognuno di noi, non sia distante, diviso, spettatore, ma si adoperi per la pace. Solo la pace conviene a tutti e la pace è di tutti. Occorre cercare la pace come unica vittoria e questa inizia parlando con mitezza, dal non ferire con la lingua, dal contrastare l’ignoranza e il pregiudizio. Se gettiamo il seme della vita, tanta pace sappiamo che crescerà oggi e fiorirà pienamente domani. Faccio mie le parole dei bambini del Piccolo Coro dell’Antoniano: “Penso a quello che si vede da lassù, tutto il male che viviamo sulla terra. Ogni lacrima che scende e sale su. Con l’amore penso si può fare tanto. Per esempio consolare un po’ Gesù. Forza Gesù, non ti preoccupare se il mondo non è bello visto da lassù. Con il Tuo amore si può sognare e avere un po’ di Paradiso quaggiù”. Così sia. Forza Gesù, non ti preoccupare. Con te si vede bene il cielo e con te vedo con amore la terra e ogni persona. Dona speranza e pace. Donaci di essere lottatori di speranza e artigiani di pace. Grazie amico caro di tutti i nostri giorni.

Bologna, basilica di San Petronio
31/12/2023
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