L'intervista

Zuppi: «Per una Chiesa vicina e in cammino»

In dialogo col cardinale a cinque anni dal suo arrivo a Bologna

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BOLOGNA – In occasione del quinto anniversario dall’arrivo in città, un’intervista all’Arcivescovo sul bilancio di questo primo tratto di strada e uno sguardo al prossimo futuro.

Cinque anni fa l’arrivo del nuovo Arcivescovo. Che emozione ricorda e a che punto siamo?

Ricordo con tanta emozione l’ingresso, il primo incontro con la Diocesi nel Santuario di Boccadirio. Poi l’incontro con i poveri nella Casa della Carità e il pranzo, Villa Pallavicini e uno dei luoghi simbolo delle ferite della città, la stazione di Bologna. E poi la visita all’ospedale. È stato il mio primo modo per dire «vi sono vicino nella sofferenza». Ricordo la tantissima gente che all’ingresso mi ha fatto sentire davvero accolto e oggetto di tanto affetto. Era proprio quello che chiedevo nella prima lettera che scrissi, perché dall’affetto reciproco nasce la possibilità di camminare insieme mentre è complicato, tutto diventa più difficile, quando ci si guarda a distanza. Istantaneamente ho sentito tanto affetto rivolto verso di me, qualcosa che mi fa sentire in debito, perché dietro a quell’affetto c’era anche la richiesta di una Chiesa che cammini, sia vicina e sia madre. Per questo sento in me quell’unico debito che il Signore ci chiede di avere: della riconoscenza e dell’amore vicendevole. 

Cosa l’ha colpita della città di Bologna, della sua gente e della società civile?

Insieme all’accoglienza, anche il desiderio di futuro. Qualcosa che ho percepito pure nelle istituzioni più rappresentative della città e di tutto il territorio, come l’Università e il Comune. Il desiderio è di guardare avanti, di non rimanere intrappolati nel passato, e di lavorare insieme per migliorare le condizioni di tutti. In particolare di quanti hanno più difficoltà.

Cinque anni sono già un tratto di strada. Siamo all’interno dell’Avvento di un Natale pandemico, quindi si cammina ancora verso…

E’ vero, un tratto è stato fatto! Ogni tanto penso «Già cinque anni?!». Il tempo è curioso. Un po’ è volato. A volte non passa mai. Forse passa veloce quando ci sono tante cose. Effettivamente si pone la domanda verso dove. La pandemia ci sfida a non perdere tempo. Abbiamo capito che il male è una cosa seria, che non si scherza, ci è chiesto di essere vigilanti. Non basta fare qualcosa di grande per poi tornare alle cose di prima, dobbiamo cambiare per davvero. Credo che stiamo andando verso una Chiesa che non smette di stare vicino agli uomini e di annunciare loro, in tanti modi, la notizia più bella e cioè quella alla quale l’Avvento prepara. Ricordo che entrai proprio poco prima del Natale, all’inizio del Giubileo della Misericordia. Ho avuto tanti suggerimenti dall’alto sulla strada su cui camminare. Il Natale è questo. È la vicinanza di Dio, ne abbiamo bisogno, che si mostra nella nostra debolezza, perché vediamo che essa – dato che spesso ci reputavamo invulnerabili – è amata da Dio. Non scappiamo dalla debolezza, dalla nostra e da quella degli altri, impariamo a voler bene a noi e a tutti.

Cinque anni con la Chiesa bolognese nel cammino di conversione missionaria e oggi nel segno del seminatore. A cosa richiama il Papa con l’Enciclica «Fratelli tutti» in questo Natale così particolare e pandemico?

Il seminatore ha per definizione speranza. Credo che in questi mesi abbiamo sentito molto la forza del male che spegne la speranza, che ci fa sentire smarriti e incerti. Qualche volta ci toglie anche il gusto di fare le cose. Il seminatore invece sa che quei semi daranno frutto. Papa Francesco ci aiuta a capire, la pandemia può dividerci, facendoci pensare di doverci proteggere dagli altri, oppure può unirci facendoci sentire tutti sulla stessa barca. Il Papa ci invita ad essere «Fratelli tutti». Nel Natale c’è un messaggio per i cristiani di consolazione, luce e speranza e questo deve diventare un’attenzione verso tutti. Vediamo nell’altro mai un estraneo, ma sempre il nostro prossimo. Gesù viene per tutti e ci insegna ad essere per tutti. La pandemia ci chiede un amore pandemico, nel senso positivo del termine, cioè universale.

A cura della Redazione di Bologna Sette

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