In uno dei nastri conservati nell’Istituto, Giuseppe Dossetti racconta di un colloquio avvenuto col padre, ormai gravemente malato, a giugno del 1952. Il vicesegretario della Dc e costituente, voleva che il padre avallasse la sua scelta di lasciare la vita politica. Non era certo improvvisata o dettata da motivi contingenti. Era, piuttosto, una decisione che aveva maturato nel tempo, non per una sconfitta o convenienza. Tra l’altro, proprio in quel periodo molte delle idee sue e del gruppo di Cronache Sociali diventavano riforme, a partire da quella agraria. La sua era la manifestazione ultima di una convinzione intima e solo spirituale, vissuta con il rigore personale che ha caratterizzato tutta la sua vita: che i problemi del rinnovamento della società, che aveva attraversato la grande guerra, il fascismo, la shoah, la seconda guerra mondiale, andassero risolti a monte, attraverso un rinnovamento interiore e un investimento senza spesa di pensiero. E i due sono molto uniti, necessari entrambi. Dossetti accennò al padre la sua idea di “un istituto”, dai contorni allora ancora imprecisati. E il commento del padre, che lo conosceva bene, fu lapidario: “Ho capito: ti sei stancato di tentare di fare la rivoluzione nello Stato, adesso vuoi tentare di farla nella Chiesa”. Pochi giorni dopo, il 23 giugno, il padre moriva e don Giuseppe entrava in questa Bologna “dove la Santa Chiesa è più pellegrina che altrove”, come diceva Giacomo Lercaro, creato cardinale a gennaio dell’anno dopo. Per Dossetti fu l’inizio di un rapporto iniziato dapprima insediandosi, grazie ad Angelo Salizzoni, solitario nei locali qui accanto, di fronte al portone della federazione giovanile del Pci guidata da Guido Fanti, poi – dopo gli incontri nel castello di Rossena nei quali sciolse la corrente – con l’inizio di un non-luogo con un non-nome: “Centro di documentazione”. In esso coabitarono da un lato la sua intuizione di una vita monastica raccolta nel silenzio, che oggi è il silenzio di Monte Sole, di Ramallah in Cisgiordania, del Monte Nebo, al di là del Giordano, dall’altro la sua intuizione scientifica, alla quale ha dato corpo il prof. Giuseppe Alberigo, per tutta la vita e con tutta la vita, secondo una radicalità che lo fece definire dal Cardinale Martini “un cavaliere lombardo senza macchia e senza paura”. I locali che l’on. Salizzoni aveva trovato erano quelli dell’attuale sala di lettura, con la porticina che è stata riaperta per ripristinare il legame antico fra il complesso ospedaliero e la Chiesa dove, come ricorda la colonna di sinistra, Dossetti iniziò a pensare la propria regola monastica con una preghiera del messale: “Col lume celeste, Signore, previenici sempre e dovunque affinché contempliamo con sguardo puro e accogliamo degno affetto il mistero di cui tu ci hai voluti partecipi”.
Settant’anni fa non interessava a nessuno la storia di questo luogo che, però, portava in sé, come un imprevedibile codice, qualcosa di ciò che il Centro, poi l’Istituto e da quarant’anni la Fondazione hanno voluto essere e – come ci ha mostrato Alberto con la sua passione e rigore di ricerca intellettuale e con la libera intelligenza pratica – è riuscita ad essere.
Qua sotto nel medioevo c’era la Chiesa di San Giobbe degli incurabili: un lebbrosario fuori porta, sulle rive della fiuma di Sant’Orsola, di cui resta qualche piccolo frammento nelle cantine della canonica. Poi, quando fu proibita la mendicità a Bologna, divenne uno dei tre poli nei quali venne divisa l’assistenza ai poveri: le prostitute a San Sigismondo, qui gli orfani, i pazzi a Sant’Orsola. Il complesso diventò poi un ospedale dei Mendicanti con la decisione del senato di dotarlo di una Chiesa nella quale tutti i mestieri della città furono obbligati a fare un altare di grande pregio come quelli che vedete qui, bisognosi di restauri che spero trovino disponibilità simili a quelle del Seicento, e commissionando a Guido Reni due grandi pale: una con il trionfo di San Giobbe (che è a Parigi a Notre Dame e che spero ci presteranno prima o poi) e una con la Pietà portata da Napoleone a Parigi e poi tornata per stare in Pinacoteca, sostituta da questa preziosissima copia dell’Albèri.
Pensando ai settant’anni di lavoro di cui oggi diciamo grazie a tanti – grazie a chi l’ha fatto, grazie a chi l’ha sostenuto, grazie a Lei, Signor Presidente, che viene a dire con la sua presenza il valore “repubblicano”, costitutivo, fondativo della ricerca storica e religiosa della Fondazione ma direi anche di tutte le istituzioni del nostro Paese. È un valore, questo, che non bisogna limitare o cercare di mettere de facto in discussione, perché richiede non la forza della maggioranza ma lo stesso metodo di confronto e lo spessore di contenuti con cui è stato voluto. Chi non lo comprende o ha fatto sempre fatica ad accettarlo, può pensare sia causa di lentezza e non invece la sapienza indispensabile per la democrazia. In questi giorni abbiamo ricordato gli ottant’anni degli eccidi più efferati che hanno insanguinato le nostre terre e che ci affidano il testamento di non essere mai più contro l’altro, mai più senza l’altro, ma sempre insieme all’altro. La ringrazio ancora, Signor Presidente, per la recente celebrazione a Marzabotto, commovente, insieme al Presidente tedesco, per le vostre parole che indicano un impegno per gli anni a venire di rinnovata passione europea e per ritrovare l’anima indispensabile perché l’Europa cresca e sia se stessa. Questi valori, che tanto debbono alla visione evangelica e alla dottrina sociale, sono indispensabile per la Chiesa stessa, perché le permettono di entrare nella storia, di non chiudersi e di poter camminare con tanti compagni di strada, mettendo sempre e con rigore al centro la persona umana.
La lunga storia della Fondazione per le Scienze religiose ha segnato anche in maniera indelebile la ricerca storica intorno al Concilio Vaticano II ed è proseguita su vari e importanti temi fino ad oggi. Un oggi che per noi tutti è pieno di interrogativi, domande, sfide, alcune antiche e altre inedite ed urgenti. Per fare questo invito ad allargare sempre più la rete delle collaborazioni, delle disseminazioni reciproche fra mondi della ricerca, fra discipline e approcci differenti. Un invito allo sviluppo della ricerca in maniera sempre più ampia e con uno stile cristiano di attenzione, mitezza e ascolto della realtà degli uomini, del “circuito delle due parole” – con le parole di Dossetti – la parola di Dio e la parola della storia umana. Un allargamento, spero, ulteriore a livello nazionale ed internazionale, ed anche a livello bolognese, in una collaborazione serrata – così come già avviene – con le istituzioni universitarie laiche e quelle teologiche, che cercano di svilupparsi, con fatica, in una maniera sempre più sensibile alle istanze di una società pluralista, complessa, abitata da molteplici e insopportabili ingiustizie. Riprendendo ancora le intuizioni di Dossetti: una ricerca storica e teologica che non dimentichi mai le istanze dei poveri e degli oppressi. In tal senso credo sia importante sottolineare un duplice aspetto del rapporto tra Chiesa e storia. La comunità cristiana – e la sua teologia – ha bisogno dell’approccio storico e di una ricerca leale, precisa, circostanziata. L’esperienza del Vaticano II ha confermato in più modi che la Chiesa, per potersi rinnovare, ha bisogno di un rapporto sorgivo con le fonti indagate, studiate, riscoperte. Dall’altro lato la storia, in una attenta distinzione dei metodi e degli approcci, può essere riletta in dialogo con la teologia del vangelo, con le chiavi di lettura della rivelazione cristiana, con la sensibilità per i poveri, per – ancora un’espressione di Dossetti – i “senza storia”. Come affermato da Bonhoeffer, ormai vicino all’ultima parte della sua vita: «Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti». La Chiesa ha bisogno della storia come dell’aria e la ricerca storica può – mi permetto di osservare – avere una grande giovamento con uno sguardo dal basso che è istanza di verità, autenticità, e speranza di futuro. E questo serve tanto alla laicità dello Stato, perché riserva etica fondamentale per evitare pericolose semplificazioni e rozzi ideologismi.
Analogamente ai tanti Giobbe che qui venivano accolti, gli studiosi che sono passati e passano sono stati e sono come degli “incurabili”: una passione di studio, una severità di vita, una “leggendaria parsimonia”, diceva Napolitano, l’insoddisfazione come metodo, sono i tratti che continuano a fare la differenza. Questo è rimasto anche un luogo di “orfani, ma come tutti gli orfani anche quelli che sono qui potevano scegliere se fare dell’orfananza un lutto che non guarisce mai, nella venerazione della cenere, o una riserva creativa di dolcezza feconda, che illumina tutta la vita e trasforma il vuoto in una presenza diversa. Qui, a Palermo, a Venezia, hanno cercato di realizzare la seconda cosa: gli orfani di Dossetti, di Papa Giovanni, del Concilio, di Lercaro, della pace – di questa tutti dobbiamo sentirne l’orfananza – hanno trasformato queste assenze in un mandato che ha guidato i loro studi. Siete sempre rimasti “mendicanti”, perché con attenta determinazione sia qui che altrove la Fondazione vive di un capitale che costa anziché rendere (le biblioteche enormi di Bologna e ora di Palermo). Fate bene ad allearvi con istituzioni e figure sensibili (a Bologna l’Ateneo, per l’attenzione dei rettori Fabio Alberto Roversi Monaco, del compianto Pier Ugo Calzolari e di Francesco Ubertini; a Palermo Fscire, per iniziativa di mons. Corrado Lorefice che saluto, a Venezia il Demanio per iniziativa dell’allora Prefetto, Michele di Bari, che saluto) e a contare sulle risorse che le imprese e i soggetti pubblici destinano alle grandi imprese di ricerca che hanno un valore permanente per tutti. Ovviamente auspichiamo la necessaria continuità degli aiuti per garantire questa impresa che ha guadagnato all’Italia la guida di un “CERN” delle scienze religiose.
Mendicanti ed esigenti, giacché la decisione di far nascere in sei anni a Palermo la più grande biblioteca europea degli islam, rifiutando di chiedere e di accettare denaro “islamico” per custodire l’indipendenza della ricerca non è senza contraccolpi. E la scelta di finanziare con donazioni il restauro della sede della prima biblioteca “repubblicana” sulla storia e la dottrina dell’ebraismo solo dopo aver garantito l’impegno delle istituzioni pubbliche non è un’astuzia ma l’espressione di aver da compiere qualcosa di cui la ricerca è lo strumento di un uso “pauperum”, si direbbe nel linguaggio francescano.
Infine, questa è anche la Chiesa “della Pietà” e mi è sembrato giusto, in un momento in cui le comunità ecclesiali devono aggregarsi meglio e ripensarsi per poter conservare il loro respiro di vita, affidare la Chiesa a chi la tiene per un uso multiplo: uno spazio di preghiera per qualche parte della giornata, che è oggi la silenziosa lettura biblica continua del mattino, e poi come luogo di studio e di ascolto nel resto del tempo. Il tutto sotto un’attesa di pace che è rappresentata da molti segni dentro e fuori questa chiesa: nelle encicliche che volano su di noi e sono la visione da cercare nella ricerca, e per certi versi la orientano e la proteggono dall’alto; nelle campane a morto che suonano ogni mattina alle 8 per chi morirà anche oggi nella “inutile strage”; nella scelta di far vedere sul muro della chiesa “l’avviso sacro” che la “Chiesa in uscita” vuole essere operatrice di pace; nella decisione di mettere sulla porta una profuga che piange sul proprio bimbo e nella veneziana davanti alla porta il ricordo dei 253 ostaggi deportati da Hamas il 7 ottobre. Mi è sembrato giusto perché l’ipotesi di lavoro su cui tutto ha ruotato in questi settant’anni è specifica e merita una parola. Tutti sappiamo che esiste un nesso fra studio e pace.
Qui alla Fondazione c’è sempre stata un’idea specifica, diversa nei modi e nelle forme da quella squisitamente accademica. Ed è che un’insufficiente conoscenza della profondità della storia religiosa, dei suoi testi, delle sue tradizioni, ne favorisca i processi di sclerosi che seminano intolleranza, violenza, guerra; e dunque spiega perché la pigrizia delle Chiese e delle religioni davanti alle esigenze spirituali più profonde chieste da ciascuna fede sia causa dell’intolleranza, della violenza, della guerra, che paralizzano le società e rendono l’ingiustizia invincibile. Era vero e lo resta ancora di più.
Ciò che qui si è praticato è la convinzione che la ricerca della pace, il dialogo fra le culture e la comprensione fra le fedi, devono diventare lavoro severo e rigoroso che scende nelle profondità della storia e deve proteggere da pericolosi opportunismi che dimenticano il prezzo di questa pace pagato da un’intera generazione che l’ha sognata, voluta, difesa. Non a caso Dossetti metteva in guardia dall’inerzia irrazionale che subisce la guerra come fatalità e invitava a non darsi pace se non facendo veramente opere di pace, perché non dobbiamo fare come “quegli animali polari che vanno incontro al suicidio collettivo per estinguersi o regolare lo sviluppo della fede”. Lo studio era ed è il modo con cui si imparava a “fiutare l’odore di bruciato” quando è ancora possibile domare l’incendio. “Finché si è in tempo”.
Ringraziamo per il dono di questo luogo, nella memoria di chi l’ha iniziato, i tanti che lo rendono vivo con la propria intelligenza, la generosità o la volontà politica. Ringraziamo la provvidenza di Dio che spinse Lercaro ad accogliere in questa Chiesa di Bologna quell’intuizione, quella figura alla quale avrebbe chiesto moltissimo (lo obbligò per obbedienza a candidarsi a sindaco, gli fece scrivere il Libro Bianco per Bologna, che è stata l’agenda ineguagliata della città) e dalla quale avrebbe avuto in cambio un sostegno leale in concilio e nel post-concilio. Un grazie alle persone che non ci sono più e che hanno permesso alla Fondazione questa espansione così silenziosa e così potente: Pino e Angelina Alberigo, Franca Magistretti, Luciana Mortari, Paolo Prodi, Boris Ulianich nella prima generazione; Pier Cesare Bori, Franco Giusberti, Massimo Toschi nella seconda; Corrado De Rossi, Francesca Della Salda e, benché più anziano, Dino Buzzetti; non ultimi Nino Andreatta e Valerio Onida che hanno preceduto Sandro Pajno alla presidenza, che ha accettato con la generosità che è la sua. E un grazie a quanti hanno saputo usare l’idea che anche nella ricerca ciascuno può guadagnare in sapere solo se costruisce gli strumenti del sapere di tutti, se l’io studioso fa ricerca e serve la ricerca. Viviamo un momento di trasformazione e di crisi. Questa sollecita sempre la tentazione di restaurare la società, di cercare ipotetici periodi d’oro che riempiono solo di confronti e di fatto rendono profeti di sventura, implacabili e stolidi assertori di una verità che disprezza la storia (e quindi ne è fuori) e che non ha niente a che fare con la società così cambiata. Congar diceva: “La storia salverà la teologia”. La Chiesa del Concilio è una Chiesa storica, attenta ai segni dei tempi, che non ha paura della libertà della ricerca. Spiritualità e storia, sempre riducendo la storia a dimostrazione della provvidenza, ma penetrandola con intelligenza per riconoscere in essa i tanti semina verbi che essa contiene. Abbiamo il compito di rimettere in movimento la cultura storica: rimettere lo spirito e l’uomo al centro e non il denaro o qualche algoritmo. È l’ora della responsabilità nel costruire il futuro, in una società che non vota e ha paura. La guerra in tanti scenari è stata riabilitata come l’unico strumento per risolvere i conflitti e semina dolorosamente morti su morti ovunque. Il terrorismo si è strutturato in maniera pesante e barbara. La diplomazia sta vivendo una stagione di debolezza. Occorrono sapienza e valori umanistici ma anche, e sempre, tanto rigore e tanta determinazione.
Il mio è il grazie della Chiesa, che vuole accompagnare nella comunione quanto qui avviene e che oggi beneficia di un pensiero sempre critico e mai ribelle, mai ossequioso e sempre obbediente. E la sua presenza, Signor Presidente, la presenza di capi religiosi, diplomatici, rettori, professori amici dice che c’è un grazie più grande che raccogliamo perché in questo luogo diventi energia di pace per tutti.
“Col lume celeste, Signore, previenici sempre e dovunque affinché contempliamo con sguardo puro e accogliamo con degno affetto il mistero di cui tu ci hai voluti partecipi”.