Intervento all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Sassari

I pilastri per una convivenza pacifica alla luce dell’enciclica di Fratelli tutti

Primo pilastro: una comunicazione diversa

         Fratelli tutti, Sorelle tutte. Voglio cominciare così perché così inizia Papa Francesco nella sua enciclica. Un’enciclica rivolta a tutti, possibile a tutti, che ci fa sentire tutti sulla stessa barca, non da estranei, da concorrenti, da nemici, ma da fratelli. È scritta pensando proprio a tutti. I fedeli cattolici sono inseriti anch’essi in quel “tutti”. Gentili Signor Prefetto, Assessore alla Sanità della Regione Sardegna, Sindaco di Sassari, Nanni Campus, Magnifico Rettore, Gavino Mariotti, caro Vescovo, Mons. Gian Franco Saba, docenti, studenti, voi tutti che lavorate in questo Ateneo di così antica e nobile origine, dire “Fratelli tutti” non è il saluto formale che si è soliti anteporre ad un discorso. Chiamare “fratello” o “sorella” chi ascolta – chiunque esso sia – significa stabilire nei fatti, e immediatamente con lui o con lei, un rapporto di fraternità e coinvolgerlo/la in una fraternità senza confini. A Papa Francesco più che dare lezioni, presentare con supponenza analisi convincenti, interessa stabilire relazioni per un’alleanza inclusiva; interessa fare, aiutare a fare, e a fare insieme più che trasmettere un contenuto; preme creare una relazione, perché la vita è l’arte dell’incontro. Cosa succede quando non esercitiamo questa arte? Si afferma la logica dello scontro, con la polarizzazione conseguente, si costruiscono muri, anche perché è decisamente più facile che immaginare e realizzare ponti. Papa Francesco indica una strada e contemporaneamente un metodo. Nelle parole “fratelli tutti, sorelle tutte” offre la risposta a tutte le nostre domande sui pilastri di una convivenza pacifica. Anzi: c’è già l’inizio di una convivenza pacifica. È così necessaria non perché non si renda conto dei problemi, si accontenti compiaciuto delle terribili sofferenze che attraversano il mondo e offendono la dignità della vita. Dire “Fratelli tutti” non è non rendersi conto dei problemi e delle difficoltà, anzi! Solo una grande speranza, una visione del futuro, permette di affrontarli senza cedere al cinismo, alle convenienze immediate che registrano i fenomeni, non li cambiano. Parliamo oggi di alcuni pilastri, perché l’enciclica stessa non vuole essere solo un’esortazione, ma un punto di rifermento concreto e non sia ridotta all’ennesimo dichiarazionismo lontano dalla prassi. Scrive Papa Francesco (FT  36): “Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia”. Cerca di trarre indicazioni concrete dalla pandemia rappresentata dal Covid e da quella terribile guerra mondiale che tanta sofferenza produce.

La Fratelli tutti realizza una comunicazione diversa da quelle che ci sono abituali. È questo il primo pilastro di cui voglio parlare, non il più importante, ma quello che permette di accedere a tutti gli altri. Parlerò poi dei pilastri rappresentati dal sogno di un mondo senza guerra, dalla buona politica, da un’Europa più forte e della scelta di ciascuno per una fraternità universale. Il linguaggio dell’enciclica è diretto, performativo. Realizza ciò che annuncia, non parla (solo) di fraternità, ma crea (anche) fraternità. Ricorda l’εξουσία, il parlare con autorità che i Vangeli attribuiscono a Gesù. Le parole fratello e sorella sono di per sé molto forti quando vengono usate fuori dal contesto familiare. A chi gli diceva che sua madre e i suoi fratelli lo cercavano, Gesù rispose: questi sono mia madre e mio fratello, indicando chi ascoltava la Parola di Dio. I primi cristiani si chiamavano tra di loro “ἀδελφός”, per indicare un legame stretto, almeno quanto quello che unisce due fratelli nella stessa famiglia, proprio mentre rompevano molti altri legami sociali. Fratelli tutti si ispira a San Francesco, che usava i termini fratello o sorella con straordinaria intensità e li applicava ad ogni uomo e a ogni donna. Rivolgersi a ogni essere umano chiamandolo fratello o sorella – a prescindere da qualsiasi appartenenza, etnico-nazionale, sociale, culturale, religiosa ecc. – è una scelta audace, tanto più in questo tempo di caste, di vecchi e nuovi nazionalismi, di categorie contrapposte o che s’ignorano reciprocamente. Papa Francesco ne ha ben descritto conseguenze e implicazioni nel Documento sulla fraternità umana per la pace e la convivenza comune da lui sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi insieme ad Ahmed el-Tayeb, Grand Imam of al-Azhar.

Il linguaggio innovativo della Fratelli tutti – che si discosta dai testi tradizionali di dottrina sociale della Chiesa – incrocia uno dei grandi problemi del nostro tempo: la comunicazione. Negli ultimi decenni le nuove forme della comunicazione hanno cambiato radicalmente l’economia, la politica, il rapporto con gli altri e persino quello con noi stessi. Sappiamo tutti quanto ne dipendiamo in ogni aspetto della nostra vita: abbiamo bisogno del “ritorno”, attraverso i social, dell’immagine di noi stessi – anche se è negativa – per convincerci di essere vivi (o forse, più prosaicamente, per ricavare un po’ di adrenalina). I mezzi di comunicazione, scrive l’enciclica, “possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri” e “farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana”[1]. Ma, sottolinea, anche i problemi sono molti.

La Fratelli tutti ne evoca alcuni, dai “giganteschi interessi economici” che si muovono intorno alla rete, alle forme di controllo pervasivo che questa permette di realizzare, dalla spettacolarizzazione di ogni cosa alla distruzione della dignità degli individui, dalla manipolazione delle informazioni alla formazione di “bolle” che ci chiudono in gruppi identitari, dall’attacco alla democrazia alla diffusione dell’hate speech. C’è, infatti, “un mondo digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente” (205). “Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante […] ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima” (FT 42). Ciò non avviene per caso: nel mondo digitale “operano […] giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico” (FT 45). Il funzionamento della comunicazione digitale, aggiunge l’enciclica, “finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze”. Questi circuiti chiusi facilitano “la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio” (FT 45). Papa Francesco ricorda, però, che c’è un’alternativa, non cede alla rassegnazione, indica i problemi ma sempre anche la speranza, per non concedere nulla al pessimismo, rozzo o raffinato che sia. È quella proposta dalla “storytelling” del Buon Samaritano. Due uomini passano davanti a uno sconosciuto percosso a morte, lo vedono ma vanno oltre: il loro atteggiamento comunica indifferenza, dopo il loro passaggio la condizione di quell’uomo è peggiore di prima, ha motivo di credere che nessuno si occuperà di lui perché coloro che avevano motivo per farlo – sono un sacerdote e un levita – non lo hanno fatto. Sopraggiunge, invece, uno straniero che non ha nessun motivo per interessarsi all’uomo mezzo morto ma interrompe il suo cammino, accantona i suoi obiettivi e sospende i suoi progetti per avvicinarsi a lui: prima ancora di medicarlo, prendersene cura e portarlo nella locanda, gli comunica interesse, gli attribuisce valore, lo antepone ai suoi impegni, gli comunica che è importante per lui. Lo tratta, infatti, come un fratello. Sacerdote e levita da una parte, e il samaritano dall’altra, comunicano messaggi opposti di non-fraternità e di fraternità e anche gli effetti sono opposti.

È una chiave di lettura valida anche per orientarci in un mondo della comunicazione che fa oggi pendere decisamente la bilancia dalla parte dell’indifferenza e, peggio, dell’odio. E come sappiamo tra l’una e l’altro c’è uno stretto rapporto, perché l’indifferenza è l’incubazione dei sempre fertili semi di odio e divisione. Su questo terreno si giocano oggi in modo rilevante le sorti della convivenza umana. Dobbiamo mobilitarci per disinquinare la rete e creare un ambiente favorevole allo sviluppo di rapporti non conflittuali ma solidali. Sappiamo anche come certe campagne diffamatorie – in grado di distruggere una persona o una realtà mediante l’influenza nei social – rispondono a interessi specifici, subdoli e pericolosi anche perché si nascondono dietro l‘anonimato del web, al quale si concede una innocenza in realtà sospetta perché manipolata, o come se fosse un sondaggio oggettivo e specchio della reazione collettiva. Ha cominciato a farlo l’Unione Europea, introducendo norme per contrastare il clima tossico oggi prevalente on line, ma a questo livello il lavoro è ancora molto e le resistenze sono forti. Bisogna piegare enormi interessi finanziari, concentrati in mani di pochi privati che possono condizionare de facto gli Stati. C’è, però, un potere sulla comunicazione che è nelle mani di ognuno di noi. Malgrado tutto, infatti, resta sempre uno spazio di libertà. Abbiamo la possibilità di comunicare odio e indifferenza ma anche solidarietà e vicinanza. Insomma, comunicare oggi non è (solo) un affare individuale e privato ma è sempre (anche) collettivo e pubblico. La nostra comunicazione ha sempre una valenza pure politica, nel senso lato del termine: influisce sul sentimento e sui sentimenti, sulle scelte degli altri e sui loro comportamenti, con riflessi che riguardano gli orientamenti di tutti. Se è vero quello che dice Nanni Moretti in uno dei suoi film, “chi parla male pensa male”, è vero che ciascuno può comunicare bene, ed è la somma delle nostre comunicazioni a fare il trend che prevale in rete. È un piccolo potere che se lo esercitiamo tutti insieme e nella stessa direzione può diventare un grande potere, persino più forte di chi manipola la rete grazie ai grandi mezzi economici, politici o tecnologici.

Secondo pilastro: il sogno di eliminare la guerra

Un contesto comunicativo diverso aiuta anche la diffusione del “sogno di una società fraterna” di cui parla la Fratelli tutti (FT 4). Di questo sogno fa parte un ordine internazionale che elimina la guerra, perché in ogni guerra risulta distrutto «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana» (FT 26). È il secondo pilastro di cui voglio parlare. Potrebbe sembrare un obiettivo utopistico, irrealizzabile e velleitario. Ma, come affermava Giorgio La Pira, “non ci muoviamo sul terreno astratto dell’utopia, ma restiamo saldamente radicati in quello concreto della storia”. Occorre anzitutto ricordare che eliminare la guerra non vuol dire eliminare i conflitti umani in tutte le loro espressioni. Dobbiamo sempre fare i conti con il male che è sempre “accovacciato alla tua porta”, con il suo istinto di cui ci è raccomandato “tu dominalo” (Gen 4,7). Una convivenza pacifica non intende estirpare i conflitti dal cuore dell’uomo, e spesso la conseguente violenza, ma proibire la guerra con la scelta di risolverli non con l’uso delle armi ma con il diritto. Si dirà che oggi è diverso, che tante regole della guerra non vengono più rispettate, che la sua natura è molto cambiata e che i modi di combatterla si sono grandemente ampliati, che il confine con altre forme di violenza è diventato molto più incerto. È ancora, tuttavia, un fondamentale legame con lo Stato a definire la guerra[2].

In secondo luogo, proprio la storia ci ricorda che non solo la discussione sulla possibilità di eliminare la guerra è in corso da almeno un secolo, ma che sono stati fatti anche passi concreti per realizzarla. E – ciò è ancora più rilevante – con risultati parziali ma concreti. Dopo la Seconda guerra mondiale si è cercato di realizzare un ordine internazionale che sostituisse alla guerra altri mezzi per risolvere le controversie tra gli Stati. L’art. 11 della Costituzione italiana è molto chiaro in questo senso. Tale tentativo ha incontrato tantissimi ostacoli e resistenze ma per decenni il mondo è andato in questa direzione. Anche negli anni più bui della Guerra fredda e durante quelli della Grande distensione si è affermato con grande forza che la guerra doveva essere evitata ad ogni costo. Vorrei proporvi un passaggio dell’omelia che San Paolo VI, con consapevolezza sofferta e con visione spiritualmente e umanamente ispirata, propose nella celebrazione dell’1 gennaio 1970, dedicata proprio da lui come Giornata della pace. “La pace esige un’educazione. Bisogna scuotere i cardini di inveterati pregiudizi: che la forza e la vendetta siano il criterio regolatore dei rapporti umani; che ad un’offesa ricevuta debba corrispondere altra, e spesso più grave offesa: «. . . occhio per occhio, dente per dente . . .» (Matth. 5; 38) che l’interesse proprio debba prevalere su quello altrui senza tener conto dei bisogni degli altri e del diritto comune . . . Bisogna mettere alla radice della nostra psicologia sociale la fame e la sete della giustizia, insieme con quella ricerca di pace, che ci merita il titolo di figli di Dio (Cfr. Matth. 5, 6, 9). Non è utopia, è progresso, oggi più che mai reclamato dall’evoluzione della civiltà, e dalla spada di Damocle d’un terrore sempre più grave e sempre più possibile, che le pende sul capo. Come la civiltà è riuscita a bandire, almeno in linea di principio, la schiavitù, l’analfabetismo, le epidemie, le caste sociali, malanni cioè inveterati e tollerati come fossero inevitabili e insiti nella triste e tragica convivenza umana, così bisogna riuscire a bandire la guerra. È la buona creanza dell’umanità che lo esige. È il tremendo e crescente pericolo d’una conflagrazione mondiale che lo impone. Non abbiamo, noi singoli e deboli mortali, alcun mezzo per scongiurare ipotesi di catastrofi devastatrici di dimensioni universali? Sì che li abbiamo! Abbiamo il ricorso all’opinione pubblica, la quale in questo frangente diventa espressione della coscienza morale umana; e tutti sappiamo quale ne può essere la salutare potenza. “Abbiamo il nostro singolare e personale dovere: essere buoni, che non vuol dire essere deboli ma essere promotori del bene; vuol dire essere generosi, vuol dire essere capaci di rompere con la pazienza e col perdono la triste logica della catena del male; vuol dire amare, cioè essere cristiani” (1.I.1970). La creanza umana. Non siamo fatti per vivere come bruti.

 Oggi, però, non è più così. “La guerra – scrive l’enciclica Fratelli tutti – non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti” (FT 256). Le conferme sono sotto i nostri occhi. Non è vero, dunque, che la guerra è sempre stata considerata “normale”. Rispetto alla seconda metà del Novecento, c’è stato un cambiamento storico su cui occorre riflettere. Più di cento anni fa un Papa coraggioso e lungimirante definì, nel pieno di un conflitto dove le parti cercavano di trarre sostegni proprio dalla più alta autorità spirituale, la guerra un’inutile strage, desolidarizzando la Chiesa cattolica da qualsiasi pretesa giustificazione religiosa al ricorso alle armi. Oggi le cose appaiono tanto diverse da come ancora le vedevamo meno di trent’anni fa, dopo la caduta del muro di Berlino che ha rilanciato tante speranze di pace. Sessant’anni fa, dopo la crisi di Cuba, nella Pacem in Terris San Giovanni XXIII scriveva: “Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa ancora essere utilizzata come strumento di giustizia”. Era un messaggio fortissimo: nella guerra contemporanea i mezzi prevalgono sempre sui fini, i danni sono sempre maggiori dei (possibili) vantaggi, dunque la guerra è contro ragione. È un giudizio ancora valido, anzi oggi è ancora più evidente la sua irrazionalità e la sua, non controllabile da nessuno, pericolosità. La guerra, infatti, non solo quella atomica,  ha acquistato, come sottolinea la Fratelli Tutti, “un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti” (FT 258) e scatena “forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale” (FT 257). “Dunque – conclude la Fratelli Tutti – non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce” (FT 258).

         Il punto è che, diversamente da sessant’anni fa, non ci colpisce più di tanto questa tragica “irrazionalità” della guerra. Oggi non ci importa molto – a meno che non lo sperimentiamo direttamente sulla nostra pelle – che la guerra sia uno strumento sempre più assurdo se rapportata al prezzo altissimo e sproporzionato che comporta in termini non solo umani ma anche politici, economici, tecnologici ecc. Non ci fa riflettere più di tanto neanche che le guerre producano danni gravissimi anche a chi le inizia o a chi la vince (ma oggi è davvero possibile vincere una guerra?). Fratelli Tutti parla della guerra come di un “fallimento della politica” (FT 261) e si oppone a quanti vorrebbero delegittimare o, addirittura, liquidare l’ONU, il principale degli strumenti pensati per risolvere i conflitti con un’autorità sovranazionale. È la scelta lungimirante dei padri costituenti che, oltre a ripudiare la guerra, indicavano la necessità di perdita di sovranità per aiutare tutte le nazioni. Si dirà che questo cambiamento di mentalità fa parte di trasformazioni più ampie e che non è possibile fermare la storia. Vero, non ha senso rimpiangere il passato. Ma bisogna fare i conti con il cambiamento e con i vuoti che crea. Se vogliamo la pace dobbiamo anzitutto attribuire valore alla pace, riconoscerla come un bene in sé.  Ed è su questo terreno che la Fratelli Tutti dà un contributo nuovo e spiazzante: la guerra non è irrazionale solo per gli effetti che produce ma perché trattare l’altro come un nemico ha in sé un’altissima carica autodistruttiva. Perché l’altro, in realtà, è un fratello. Non è forse vero che solo un accordo può mettere la situazione in equilibrio? Chi può fermare il sistema della guerra? All’Accademia dei Lincei il Cardinal Pietro Parolin ha autorevolmente dichiarato che per la Santa sede «la guerra non è più uno strumento lecito dell’azione internazionale». Occorre percorrere la via del disarmo, rafforzare e non indebolire le realtà sovranazionali, consapevoli che non se ne esce da soli e che la giustizia è possibile se non accettiamo la logica del più forte ma del diritto.

Terzo pilastro: una buona politica

Per Francesco, un altro pilastro importante di una convivenza pacifica è costituito dalla politica. Malgrado “gli errori, la corruzione, l’inefficienza” dei politici, l’enciclica la difende contro chi la ritiene una “brutta parola” e contro “le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia” (FT 176). Il mondo, afferma, “non può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica” (F 154). Anzi, non può proprio funzionare senza di essa. Francesco ritiene perciò che anche la Chiesa debba interessarsi alla politica: pur rispettandone l’autonomia[3].

Ma una “buona politica” ha molti nemici. Due dei più forti sono oggi il neoliberismo e il populismo. Come caratteristiche del primo l’enciclica sottolinea il rifiuto “dei legami comunitari e culturali” e una concezione della società come “mera somma di interessi che coesistono” (FT 163). Al riguardo, afferma: “Il mercato da solo non risolve tutto […] La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che […] dobbiamo rimettere la dignità umana al centro”: su questo “pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno” (FT 168). È la visione delle élite economiche e finanziarie, spesso con collegamenti internazionali, i cui interessi sono distaccati dagli strati sociali più deboli o anche di quelli che semplicemente sono senza le risorse e le possibilità di tali élite. Quanto ai populisti, questi – spiega l’enciclica – deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo, ma il “loro” popolo, una parte contrapposta a tutti gli altri (FT 160).

Entrambi, liberismo e populismo, finiscono così per escludere il popolo dai luoghi e dai modi della decisione. “Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture” (FT 155). Fratelli tutti è consapevole della polisemanticità del termine popolo e delle molte ambiguità che si generano quando usiamo questa parola. Ma è impossibile negare che la società sia più di una somma di individui (neoliberismo) e che sia inaccettabile la contrapposizione tra un (vero) popolo che coincide solo con una parte e tutti gli altri che non vi rientrano (populismo): “La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo ‘popolo’ e nell’aggettivo ‘popolare’” (FT 157).

Criticando neoliberismo e populismo, Papa Francesco mi sembra indicare la strada della democrazia[4], anche se questa parola, come giustizia o libertà, è stata manipolata, deformata e svuotata di un contenuto chiaro per giustificare qualsiasi azione, persino di dominio sugli altri. Oggi la democrazia è in ritirata: il numero di Paesi democratici sta diminuendo; anche democrazie occidentali di antica origine mandano segnali di malessere. La democrazia è in crisi, per una crescente separazione tra élites e classi popolari, per un progressivo allontanamento delle istituzioni e la politica dalla comunità in cui dovrebbero essere radicate, per la crisi della politica e di visioni sovranazionali e multilaterali. Ne conseguono nuove tendenze autoritarie e illiberali, derive demagogiche, crescita delle disuguaglianze economiche e sociali, rarefazione della società civile e dei corpi intermedi, impoverimento del dibattito pubblico.

Nel 1944, con il radiomessaggio natalizio di Pio XII, la Chiesa cattolica ha dichiarato – per la prima volta – che la democrazia è preferibile ad altri sistemi politici. Lo ha fatto, non a caso, verso la fine della guerra più devastante della storia, la Seconda guerra mondiale, e nella convinzione che, rispetto ad altri sistemi politici, sia quello meno incline alla guerra. È un motivo decisivo per preferire la democrazia e per contrastarne la crisi. E per farlo bisogna avere la stessa carica ideale, la stessa capacità unitiva, quello spirito costituente che permise alle convinzioni diverse non solo di non ignorarsi e di non contrapporsi imponendosi a colpi di maggioranza, ma di arrivare a produrre quell’unico straordinario inchiostro che stese la Costituzione italiana. Cambiarla richiede questa stessa capacità, perché solo così possiamo non cadere in logiche parziali, contingenti, funzionalistiche che possono portare a disequilibrare l’insieme del ben congegnato sistema costituzionale. La democrazia sarà l’oggetto della prossima edizione delle Settimane Sociali della Chiesa, giunta alla cinquantesima edizione. Fino ad oggi qualunque altro sistema politico attribuisce il potere ad uno solo, ad un piccolo gruppo o a una parte soltanto – magari preponderante ma sempre parte – mentre la democrazia tende all’inclusione, anche delle minoranze, e alla sintesi degli interessi ed è più facilmente in sintonia con le ragioni della pace rispetto a quelle della guerra.

Quarto pilastro: l’Europa

Un’altra condizione per avvicinarci a un ordine mondiale più pacifico è costituita dal rafforzamento dell’Europa: è questo il quarto pilastro di cui vorrei parlare. Papa Francesco ha spesso criticato l’Europa, ad esempio sull’atteggiamento verso i migranti. Con ironia l’ha definita nonna. In realtà ha molte attese per l’Europa: “Le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo. Ma oggi esse risentono di una ‘perdita di quel senso della responsabilità fraterna, su cui si basa ogni società civile’. L’Europa, ad esempio, rischia seriamente di andare per questa strada” (FT 40). Ed è, per Papa Francesco, una questione decisiva. In questa enciclica afferma tra l’altro che, quando settori della politica e di mezzi di comunicazione attribuiscono la figura del nemico agli immigrati, i “meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste” (FT 266). Ciononostante, Papa Francesco continua ad attribuire all’Europa un ruolo importante nel futuro del mondo, in particolare per quanto riguarda la pace. Scrive nella Fratelli Tutti: “Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la abita. Ricordiamo “la ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente’” (FT 10).  È proprio necessaria, allora, una ripresa dello spirito europeo delle origini che ora sembra attenuarsi. È indispensabile se vogliamo garantire un futuro di pace alla generazione che viene. Vorrei scrivere, ne abbiamo parlato con il Presidente della COMECE, l’italiano Mons. Mariano Crociata, una lettera all’Europa, avvicinandoci all’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale dalla quale essa trae origine. L’Europa deve crescere per non invecchiare o diventare un condominio rissoso e difficile da gestire. Deve misurarsi su nuove sfide, dotarsi di strumenti comuni, come una politica fiscale ed estera comune, l’esercito unico, una nuova architettura di politica macroeconomica, un approccio comune all’intelligenza artificiale e alle regole che la dominano. Non basta che diventi luogo di rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali, in realtà individualistici che nella versione di popolo diventano sovranismi o populismi. La persona non è mai una “monade” che non ha interesse al contesto sociale “in cui i suoi diritti e doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa”. La persona perché sia tale, affermava a Strasburgo Papa Francesco, deve ricordare che non è un assoluto ma sempre un essere relazionale. “Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami. La si vede particolarmente negli anziani, spesso abbandonati al loro destino, come pure nei giovani privi di punti di riferimento e di opportunità per il futuro; la si vede nei numerosi poveri che popolano le nostre città; la si vede negli occhi smarriti dei migranti che sono venuti qui in cerca di un futuro migliore”. Papa Francesco all’Europa indica un esempio: “Raffaello raffigura Platone e Aristotele, il primo con il dito che punta verso l’alto, verso il mondo delle idee, potremmo dire verso il cielo; il secondo tende la mano in avanti, verso chi guarda, verso la terra, la realtà concreta”. Mi pare un’immagine che ben descrive l’Europa e la sua storia. “Il futuro dell’Europa dipende dalla riscoperta del nesso vitale e inseparabile fra questi due elementi. Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello spirito umanistico che pure ama e difende”. In un’altra occasione chiarì: “È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su se stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità! I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri”. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate. “Sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia”. Sogniamo e impegniamoci per realizzarla, facendola crescere rendendole l’anima che l’ha generata.

 Quinto pilastro: scegliere per la fraternità

         Se il primo pilastro – una diversa comunicazione – costituisce la premessa degli altri, l’ultimo – la scelta personale per la fraternità, di cui vorrei parlare brevemente in conclusione – ne costituisce il fondamento. In moltissime parti della Fratelli Tutti è sottolineato quanto la solidarietà, sostanza concreta della fraternità, sia fondamentale per costruire una convivenza pacifica. È noto quanto spesso Papa Francesco abbia sottolineato l’importanza dei poveri, l’attenzione ai più deboli, la lotta alla cultura dello scarto…  In questa enciclica, però, mette a fuoco anche un aspetto importante: la solidità di chi pratica la solidarietà. “La solidità si trova nella radice etimologica della parola solidarietà”: quest’ultima, in altre parole, non può essere un moto estemporaneo. La solidarietà è sempre minacciata dall’incostanza: molte espressioni di solidarietà, anche sincere e generose, si interrompono perché gli itinerari esistenziali dei loro protagonisti li portano altrove o perché la scelta altruistica sembra, ad un certo punto, evaporare. Papa Francesco allarga lo sguardo, vede alla radice di tale incostanza un problema più generale, quasi una malattia del nostro tempo. Scrive: “In questi momenti, nei quali tutto sembra dissolversi e perdere consistenza ci fa bene appellarci alla solidità che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino comune” (FT 115). C’ è dunque un clima del tempo che sembra rendere tutto dissolvibile e inconsistente. Ma se legata alla consapevolezza di un destino comune – come quella che nasce dall’essere fratelli e cioè parte di una stessa famiglia – la solidarietà non si interrompe e non evapora. Tuttavia, proprio a causa del clima del nostro tempo, la parola destino è spesso percepita come troppo forte e ingombrante.

A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, infatti, è cominciato un profondo cambiamento antropologico ed è diventato sempre più importante il processo che chiamiamo di “autocostruzione dell’io”. Dopo secoli che carattere, principi, comportamenti di un individuo sono stati modellati da un processo formativo di impostazione autoritaria e in base a regole piuttosto rigide, motivate dalla sua appartenenza organica alla società, da alcuni decenni è prevalsa una forte deregulation formativa. Tra le conseguenze del cambiamento c’è stata anche quella di caricare l’individuo di un compito in precedenza svolto da famiglia, scuola e società: quello, in estrema sintesi, di formare se stesso, scegliendo in modo più autonomo valori, principi, comportamenti cui attenersi. E anche il compito di cambiarli, secondo le diverse sollecitazioni che si ricevono nel corso della vita. Sono processi che passano sempre meno per una trasmissione “verticale” di generazione in generazione e sempre più attraverso quella orizzontale che viaggia sui social e altri mezzi di comunicazione online. Parliamo giustamente di suicidio dell’Europa. Non dobbiamo, però dimenticare, le responsabilità, le verifiche indispensabili per non diventare “profeti di sventura” che guardano ad un passato che non può tornare, che si lamentano senza indicare soluzioni rivolte al futuro e non nostalgiche di un passato, peraltro da verificare, dimenticando di interrogarsi sulle responsabilità e sul perché gli atteggiamenti nichilistici hanno prevalso e quale sia la via per ritrovare speranza e comunità, per ritrovare il senso del futuro, il gusto di spendersi e di comunicare vita e di pensarsi insieme.

È in questo contesto che si inserisce il problema di scelte personali non effimere e transitorie, ma profonde e durature in grado di rendere sufficientemente solida la solidarietà necessaria a costruire una convivenza pacifica. È possibile conciliare “l’autocostruzione dell’io” con una nuova visione del noi, della comunità indispensabile per la formazione dell’io? Nella Fratelli Tutti si legge che “la solidarietà, come virtù morale e atteggiamento sociale” esige l’“impegno da parte di una molteplicità di soggetti” ed è frutto della “conversione” (FT 114). Papa Francesco non parla, ovviamente, di conversione nel senso di passaggio a un’altra fede o a un altro gruppo religioso, ad esempio dal Cristianesimo all’Islam o al Buddismo o altre: la solidarietà non ne ha bisogno, può essere realizzata da uomini e donne di qualunque fede o di nessuna fede. Si riferisce, piuttosto, alla conversione intesa come metanoia, nel senso originario del termine greco, e cioè come cambiamento del modo di pensare, di intendere o giudicare le cose e, più in profondità, come mutamento radicale, capovolgimento dell’orientamento della propria vita, adesione a una prospettiva esistenziale totalmente nuova. È la rivoluzione copernicana di uscire dall’egocentrismo, che fa male all’io, per trovare se stesso nell’Altro. Solidarietà, solidità, consapevolezza, impegno, conversione, sono parole che rimandano tutte a una profonda decisione personale, non per ridursi a diritti individuali, ma per una sana relazione tra l’io e il noi. È questa che, in ultima analisi, sostiene tutti i pilastri, necessaria per costruire una solida convivenza pacifica. È il sogno di Fratelli Tutti che accende di speranza la ricerca di futuro proprio perché si confronta con un mondo drammaticamente lacerato da tanti tragici conflitti (FT8). “Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato. Com’è importante sognare insieme! Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”. “Sogniamo un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!”. Ecco il futuro per cui vale la pena vivere. Grazie.

[1] 205 a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio…. È però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione ci orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla vicinanza con gli ultimi, all’impegno di costruire il bene comune.

[2] Si dirà che oggi è diverso, che tante regole della guerra non vengono più rispettate, che la sua natura è molto cambiata e che i modi di combatterla si sono grandemente ampliati, che il confine con altre forme di violenza è diventato molto più incerto… Tuttavia, è ancora un fondamentale legame con lo Stato a definire la guerra, cui è possibile accostare almeno alcune forme di terrorismo attuato da organizzazioni che aspirano a costituirsi in Stato o a combattere uno Stato già esistente. Ed è questo tipo di conflitto che è possibile contrastare, anche se la strada è lunga e implica molteplici tappe.

[3] La Chiesa, infatti, “non relega la propria missione all’ambito del privato” èha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione» (FT 276). La Chiesa, infatti, “è una casa con le porte aperte […] che esce dai suoi templi […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione», adoperandosi così per costruire una fraternità universale

[4] “Il tentativo di far sparire dal linguaggio” la categoria di popolo “potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”)”. FT 157

Teatro Comunale di Sassari
19/02/2024
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