Messa a Chioggia nel ricordo del Beato Olinto Marella

Cosa capiamo di Dio se non ne capiamo il cuore, se non gli apriamo il nostro cuore, se non accettiamo la sfida di confrontarci, così come siamo, con i suoi sentimenti, senza diaframmi, giustificazioni o difese? Possiamo capire qualcosa di Dio se lo riduciamo ad una legge, Lui che è un cuore aperto su ciascuno e sul mondo? Cosa capiamo della sua proposta di amore che ci chiede di seguirlo, Lui che mostra la misericordia, che ci viene a cercare come un mendicante di amore, Lui che è l’amore? L’uomo ricco se ne andò triste perché il suo cuore era nelle ricchezze e non capì l’amore di Gesù.

Possiamo trovare tante sensazioni, ma non il cuore. La festa di oggi ci aiuta a ritrovare il nostro cuore proprio perché ci mettiamo di fronte al suo, capiamo le sue tante ferite e i suoi sentimenti, ci leghiamo al suo giogo dolce e soave che ci libera da quello pesante dell’individualismo. Chi apre il suo cuore – pensate a San Francesco – a quello di Gesù e ne comprende i sentimenti, vede il mondo con occhi diversi ed è pieno del prossimo, non si arrende, non scende a compromessi, ama e insegna ad amare. Il cuore si ammala.

È facile indurirsi, tanto che guardiamo senza cuore condizioni oggettivamente disumane, che dovrebbero scandalizzarci o farci piangere. Il pregiudizio, il consumismo che rende le cose più importanti delle persone, ci rendono insensibili a veri drammi umani. Abbiamo poco cuore perché lo dissipiamo in quello che non vale e poi ci sentiamo deboli per fare qualcosa o affrontare gli inevitabili problemi della vita. Quante opportunità. Cuore significa anche intelligenza, progetto, fedeltà. Chi ha cuore coinvolge altri, non lascia nessuno abbandonato, non si può dare pace finché non trova soluzioni adeguate, non si compromette con la logica della corruzione piccola o grande che sia.

Gesù trasforma il nostro cuore amandolo. Solo così cambiamo. Le immagini del Sacro Cuore vogliono in maniera visiva mostrarci il mistero che non smettiamo di contemplare. Lo mettono in rilievo, come a ricordarci la sua sofferenza, le sue lacrime, la sua misericordia e farci sentire amati, importanti, portati da Lui nel suo cuore. Arriviamo a pensare che Gesù non abbia cuore perché non sarà mai funzionale al nostro egocentrismo e ci chiederà sempre di aprirlo, non di chiuderlo, di donare, non di possedere.

Finiamo così per cercare cuore nelle dipendenze, in tranquillanti che ci devono togliere i problemi e nelle droghe che ci devono garantire emozione e prestazioni. Pensiamo siano cuore le infinite interpretazioni sulla nostra vita, che sono un continuo esercizio del nostro io. Il cuore funziona bene quando non vive per se stesso. Vivere per vivere è morire. Vivere per amare è vivere. Il cuore si riempie anche di sofferenza, ma non perché ama la sofferenza, ma perché c’è, e chi ama spezza il suo cuore se vede qualcuno che sta male.

Chi cammina con Gesù trova il suo cuore, perché amato e impara ad amare, cioè trova se stesso uscendo da sé. Il suo cuore dona cuore, se vogliamo ci complica la vita, come chi ama, ma anche trova vita e trova cuore. Gesù ci complica la vita perché ci aiuta a legarci a tanti: però è un legame di amore che la rende piena. Impariamo anche noi ad amare pure quando gli altri non ci prendono sul serio, quando sembra inutile o che non cambi nulla. Che cosa possono vedere gli altri se riduciamo il cuore ad una lezione, a norme di comportamento, a una delle ennesime istruzioni per l’uso da sottoprodotto di psicologia a basso impegno e soprattutto non coinvolgendo nell’uso, lasciando l’altro solo, negandogli l’aiuto vero che è l’amore, l’amicizia? Noi non siamo solo dei consiglieri, siamo fratelli e aiutiamo questa madre cui siamo affidati! Ci aiutano tanti santi. La santità è il legame di amore che ci unisce con Dio e con i fratelli. Viene da Lui e ci porta a Lui. Santità produce santità, perché è come l’amore.

Oggi ricordiamo i vostri patroni, i martiri Felice e Fortunato, innamorati di Cristo e forti per questo, perché pieni di Lui. Sono martiri perché santi non santi perché martiri! Santo è chi ama, non chi è perfetto secondo le apparenze e le ipocrisie dei farisei. Essi ci ricordano le tante vittime della violenza che ancora oggi uccide tanti cristiani solo perché discepoli di Gesù.

I due fratelli – di sangue ma soprattutto di sangue cristiano, quello di coloro che sono generati da Dio nello Spirito – si contrapposero alla forza degli imperatori. Raccontano gli Atti del loro martirio (quanti atti ancora oggi sono scritti e quanto dovremmo leggerli e farli nostri, come quelli di padre Puglisi, di Annalena Tonelli, di Frère Christian, del giudice Livatino, di don Diana, solo per fare alcuni esempi vicini a noi) che le pene che subivano non provocavano in loro dolore. Non erano invulnerabili: la croce di Cristo li sollevava dalla sofferenza.

Oggi ricordiamo con loro anche Padre Marella, così legato a questa terra, perché la santità non è senza corpo e storia. La cappella – che lui volle costruire dentro la sua Città dei ragazzi (ne era il cuore in realtà!), Città piena di umanità e che rappresentava un porto di salvezza per tutti gli orfani del mondo, per le tante fragilità che cercano soprattutto un padre e una madre e dove è conservata la sua tomba – si richiama proprio al Santuario dell’Apparizione di Pellestrina. Le sue radici, la sua formazione più vera si respirano qui e se sono cristiane si vivono ovunque. La Chiesa è con radici profonde nel luogo dove si è generati alla fede, dove si vive. È sempre molto locale ma anche universale. Per questo il cristiano si trova a casa ovunque e tutti dovrebbero sentirsi a casa ovunque.

La carità è la nostra globalizzazione da sempre e fa sentire tutti a casa, dai bambini poveri di Pellestrina a quelli di Bologna, dagli stranieri agli orfani, tutti al primo posto perché tutti amati. Era un padre, non un paternalista che legava a sé e non rendeva autonomi. Come un padre pensava il meglio per loro, li prendeva in casa sua e poi ha costruito una casa per loro che fosse anche la sua. Dava fiducia, responsabilità, preparava con loro e per loro il futuro comune. La sua famiglia era una delle poche benestanti a Pellestrina. Lui si fece famiglia per chi non l’aveva. Parlava del Vangelo, instillava in tutti lo spirito evangelico (lo chiamava proprio così) con il sostegno materiale e l’avvio ad un mestiere per la vita; sempre con tanto rispetto vero per ciascuno, per la sua libertà “qua Christus nos liberavit” com’egli aveva fatto scrivere sul frontespizio del Ricreatorio di Pellestrina da lui fondato insieme al fratello Tullio.

Quante scuole che preparano al futuro, che adottano orfani dobbiamo costruire! La rivoluzione caritativa insegnata da Padre Marella a Bologna aveva radici lontane e profonde qui a Pellestrina. Il metodo educativo seguito, ispirato a quello della Montessori, comportava la presenza contemporanea nell’oratorio di bambini e bambine, il soffermarsi a discorrere con tutti, anche con i “socialisti”. Un vero francescano. Ogni anno, quando per le vacanze ritornava a Pellestrina nella sua bella casa del Seicento nel sestiere Busetti e vedeva i bambini con la pancia grossa, gonfia di pellagra, razzolare senza uno scopo attorno a casa, proponeva a se stesso di ritornare, appena possibile, tra quei bimbi, sudici e ammalati, affamati, analfabeti, bisognosi di amore e di speranza, per aiutarli.

I fratelli Marella acquistarono una vecchia osteria, nella quale – dopo aver posto in opera tutti i necessari lavori di restauro – nel 1909 sorse il palazzo che venne chiamato “Ricreatorio Popolare”, il cui blasone era un inno alla carità. Si lasciava interrogare dalla povertà e la sentiva come una domanda personale. Voleva che nessuno rimanesse nell’inferno dell’abbandono e della disperazione e ai tanti orfani non donava soltanto un tetto, ma una famiglia e un futuro. Sono nostri e la sua paternità ci invita ad adottare noi chi è senza protezione.

A noi, che in questi tempi ci confrontiamo con la pandemia e con le tante sofferenze fisiche e psichiche che provoca, Padre Marella insegna a non abituarci mai al male e a cercare risposte concrete e per tutti, a sentire tutti nostri e in particolare a sentire e a fare che loro ci sentano i fratelli maggiori. Siamo sulla stessa barca. Tutti fratelli. Non accettiamo che nessuno sia lasciato fuori da questa, perché vorrebbe dire abbandonarlo in mezzo alle onde di tempeste terribili.

Egli ha avuto “intelletto d’amore”, cioè una carità intelligente e creativa. Il cristiano è chiamato ad essere buono: non compiaciuto di sé e approssimativo, ma padre dei poveri che gli appartengono perché presenza reale di Cristo. L’elemosina è il primo modo per insegnare alla nostra società, per ricordare, per fare mettere le mani in tasca, per coinvolgere in una solidarietà. Se nessuno prende a giornata, c’è sempre la droga a farlo. Ai ragazzi che, nei suoi ultimi anni di vita, vanno a chiedergli il segreto per realizzarsi integralmente come cittadini e come cristiani, Padre Marella risponde con parole che non potrebbero essere più feriali e al tempo stesso più sublimi ed esaurienti: «Accontentarsi, guardare in alto, non pensare solo a se stessi».

Alla nipote Maria Luisa insegnava il vero segreto della sua opera: la preghiera. «La preghiera è il respiro dell’anima, l’elevazione del nostro spirito dalle cose umane alle cose divine, la nostra conversazione con Dio. La preghiera è il maggior conforto nelle tristezze, nella sofferenza, nelle angustie. Preghiamo per tutti: per i nostri cari, per coloro che ci hanno fatto del bene ed anche per coloro che ci hanno fatto del male. Preghiamo per gli infermi, per i sofferenti, per i peccatori, per tutti. Preghiamo per la Chiesa e per l’avvento del Regno di Cristo nel mondo intero. La preghiera è stata chiamata l’onnipotenza dell’uomo e l’impotenza di Dio, perché Iddio non sa resistere all’umile e costante invocazione della Sua creatura. La preghiera non umilia, non debilita, ma nobilita e innalza».

Chioggia, Cattedrale
11/06/2021
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