Omelia del Giorno di Pasqua

I due discepoli parlano tra loro animatamente, ma del passato. Non cercano il futuro, si esercitano sul passato come accade quando vince la disillusione e non si ha speranza per il domani. Discussioni, anche importanti, ma senza vita, che non generano vita, fatte magari solo per interpretarla con intelligenza. Come tante nostre discussioni di questi mesi, anche quelle – purtroppo – che dovrebbero preparare il futuro e invece si accontentano di ciò che ci serve oggi. Perché per preparare il futuro occorrono speranza e visione. E come per i due discepoli di Emmaus prevale la disillusione. Vince così l’individualismo: se non c’è speranza ci sono solo io, il mio futuro, il mio benessere. I due sono rassegnati: pieni di argomenti ma senza vita. Avevano avuto una speranza, che li aveva appassionati molto, ma poi era svanita, lasciando spazio solo alla tristezza, al vuoto, come un sogno tradito. Questo ricorda tanto una generazione che aveva cercato un mondo nuovo con entusiasmo e poi è finita tristemente disillusa, ferita e incapace di appassionarsi di nuovo per qualcuno, di sprecarsi per cercare. Anzi. Parlano tra di loro ma senza amore. Gesù non ha più nulla da dire alla loro vita. Certo, in fondo lo cercano, ne hanno bisogno ma non lo trovano. Tutto sembra inutile, non sufficiente. E finiscono per pensare male, come abitudine. Succede così quando il cuore è pieno di amarezza e disillusione: si interpreta tutto e si pensa solo per difendersi, per verificare e si diventa così distruttivi del prossimo, per non credere a niente e dimostrare che nulla vale la pena perché tutto ha una pagliuzza. I due sono anche sconvolti da quello che avevano detto le donne che non avevano trovato il corpo di Gesù. Addirittura, riportano, dicono, che è vivo.  Forse da qualche parte del loro cuore hanno come la brace nascosta sotto la cenere, ma il fuoco della speranza non è acceso e hanno tanta disillusione che hanno quasi paura che sia davvero vero, perché non vogliono scottarsi più. Stanno insieme ma sono soli, perché quello che li unisce era la speranza. Senza Gesù non c’è fraternità vera, perché la regola torna ad essere quella di sempre: amare se conviene, amare se stessi, amare solo per stare bene e fino ad un certo punto, non amare affatto. E se sei triste ti senti ancora più in diritto di farlo.

“Lenti di cuore”, gli dice quel pellegrino interessato, che cammina con loro, non li fa fermare, non li obbliga al suo passo ma prende lui il loro. Li ascolta – chissà perché era proprio diretto dove dovevamo andare noi! – ma non diventa funzionale a quello che pensano. Anzi. Gesù ci aiuta a capire e ci spiega che il problema siamo noi. Ci spiega chi siamo senza corteggiare il nostro io e ci aiuta a ritrovare la speranza perduta. Poco alla volta, camminando, spiegando. Non fa una lezione: cammina parlando. Anche i due discepoli erano scandalizzati dalla sconfitta di colui che speravano liberasse Israele. Gesù lo aveva sempre detto a tutti che avrebbe sofferto. Lo aveva spiegato tre volte, per evitare che i suoi si scandalizzassero e a loro anche aveva spiegato che avrebbero avuto problemi a causa sua! Non c’è speranza vera se non sa affrontare la sofferenza. Non c’è speranza se non si ama per davvero, altrimenti è solo convenienza e ci si ferma subito. Non si ama solo quando le cose vanno bene e Gesù ci ama deboli e fragili come siamo. Ci ama quando siamo peccatori e sa che amore significa anche affrontare il nemico dell’amore. Solo accettando questo, cioè un amore che significa anche sacrificio, si ama per davvero. Gesù spiega ai due che il problema non era fuori di sè  ma erano proprio loro! Non prendiamocela con gli altri, con il sistema, con le contingenze, ma con noi. Solo così si cambia il sistema! Siamo noi che dobbiamo aprire gli occhi, rimettere in movimento il cuore, e solo così il mondo inizia a cambiare! Per capirlo tutti abbiamo – e hanno – bisogno di qualcuno che si avvicini, che cammini, che non dia una risposta a distanza, ma di un incontro che tocchi il cuore, che trasmetta amore, che cambi la vita, non perché dà intelligenti spiegazioni senza vita ma perché ha sofferto, l’ha affrontata! Ecco perché dobbiamo anche noi, come quel pellegrino, uscire, chiedere, ascoltare, parlare. Gesù può parlare della sofferenza perché Lui, che poteva evitarla, non lo ha fatto. La Pasqua non è la cancellazione di questa, come pratica il mondo che la rimuove, la ignora, fa finta che non ci sia, tanto che stare bene significa solo evitarla, scansarla, spegnerla, spegnendo la vita tutta. Gesù ci riparla della croce. E la croce di Gesù ci rende attenti a tutte le croci. È quella della guerra, scandalosa, angosciante, alla quale non possiamo mai abituarci, croce che gli uomini continuano assurdamente a costruire pensando sia per gli altri, dimenticando che poi tutti finiamo vittime di quella violenza che non guarderà mai in faccia nessuno. Chi di spada ferisce di spada perisce. Costruiamo noi stessi la nostra croce, che poi significa anche tortura, scherno, diventare oggetto e trattare l’altro come oggetto, violazione dei diritti elementari delle persone! Gesù parla della sua sofferenza che è quella dei suoi fratelli più piccoli. Quante croci! È quella di tante madri che non hanno più notizie dei loro figli partiti per la speranza e morti di speranza nell’immensità del mare. Quante croci gli uomini costruiscono! Sono frutto di una cultura di morte, di forza, di affermazione di sé, di nazionalismi, di disprezzo come pratica della vita. Gesù parla della sofferenza perché solo affrontando questa arriviamo alla Pasqua. Anche Dio muore per risorgere. Ci chiediamo perché Gesù non ha tolto la morte, ma anche perché l’autore della vita l’ha dovuta perdere! Perché è solo amando, amando fino alla fine e non finché conviene, che il male è sconfitto e noi possiamo conoscere chi è Dio per davvero. Non una lezione sull’amore, ma un amante che ama fino a perdere se stesso.

Pasqua inizia per i due discepoli quando si rivolgono a quel pellegrino che vuole continuare il cammino. Gesù non può aprire il nostro cuore, perché la libertà ci permette di chiudere la porta dall’interno. Non è Gesù che deve fare, ma siamo noi che dobbiamo aprire il cuore. I due si preoccupano di Lui e vogliono che resti con loro. Ne hanno bisogno, lo desiderano. Finalmente fanno spazio al prossimo e capiscono che non possono farne a meno, che è una gioia farlo restare. È nello spezzare il pane, nell’amicizia, nel ritrovarsi a tavola insieme, che gli occhi si aprono. È Gesù. Non è un estraneo, uno lontano, non è un maestro distante di verità sempre uguali, ma un fratello che resta con noi. Dobbiamo ripartire dall’ascolto della parola e anche di quei compagni di strada che in tanti modi ci aiutano a capirla nella sua concretezza. Ritrovano la comunione perché hanno Gesù nel cuore, sono innamorati di nuovo tanto da far ardere il cuore. E lo spezzare il pane lo contempliamo nell’eucarestia e nello spezzare l’amore con la nostra vita. Così si aprono gli occhi del cuore e quelli della fede. Gesù scompare di nuovo. Non cammina più in presenza, ma cammina con loro perché è dentro di loro, tra di loro. L’amore scioglie la tristezza e libera dalla pietra pesante della rassegnazione. La Pasqua ci aiuta a ritrovare il gusto dell’incontro, di camminare assieme, incontrare. Gesù accende i cuori.  Una luce di amore accesa nelle tenebre le mette in fuga. Come abbiamo visto questa notte. E la nostra luce non si perde donandola ad altri, ma trova anzi il suo senso. E l’amore cambia la faccia della terra o, meglio, ce la fa vedere come Dio l’ha voluta: la casa di tutti i fratelli figli di Dio. Gesù è risorto e non muore più.

Cattedrale di San Pietro - Bologna
09/04/2023
condividi su