Omelia nel X anniversario dalla beatificazione di Mons. Luigi Novarese

La santità non è mai disincarnata, virtuale. La bellezza della nostra fede è proprio la vita buona che la santità genera nelle nostre storie personali e nel mondo. La santità ci libera dal suo contrario, l’egoismo, che piega tutto al nostro io. Invece è la santità, il riflesso dell’amore di Dio in ognuno di noi, che permette all’io di essere se stesso. È l’egoismo che ci rende “fuori di sé”, mentre la santità inizia quando rientriamo in noi stessi, come accade al figliolo piccolo di quel padre misericordioso che rientrò in se stesso dopo aver creduto che vivere dissipando i suoi averi significasse essere padrone della sua vita. Il ragazzo ritrova l’amore e la dignità della sua vita – che è la santità – pensandosi non da padrone ma da servo nella casa del “pane in abbondanza”. La santità è amore nostro e di Dio, come l’amore vero che è mio e tuo. Dio ce lo mette nel cuore e ce lo fa trovare nel prossimo, perché Lui ci ama, e facendo qualcosa per amore suo scopriamo l’altro e anche noi stessi. Niente ci è nemico. Siamo talmente gratuiti e liberi dai risultati e dalla prestazione, che Papa Francesco afferma: “Il cristiano ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai” (EG 279). Ecco la santità, davvero universale, che attraversa il tempo e che rimane per sempre, in questa vita e oltre questa vita.

 Oggi ricordiamo la santità di don Luigi Novarese che ha illuminato e illumina tante notti di dolore, di buio profondo, di disperazione, di amarezza, di depressione, di turbamento. La sua testimonianza ci aiuta non solo a lodare della luce che ha cambiato la nostra vita, di quanto abbiamo conosciuto attraverso di lui o che siamo stati chiamati a compiere. E come sempre, ricordare significa anche maturare scelte. Cosa ci chiede oggi il carisma di don Luigi? Non possiamo conservarlo per noi! Che cosa dobbiamo fare davanti a tanta sofferenza e solitudine? Come coinvolgere tanti volontari affinché la affrontino con noi? In effetti siamo tutti più soli e più segnati dal male. Più fragili e soli. E si può essere soli anche in mezzo agli altri. Purtroppo spesso la solitudine è fisica, frutto di isolamento, come si è rivelato per tutti nella pandemia. È stata una grande opportunità per capire che l’uomo non è un’isola e che la solitudine è davvero una tortura. Non dobbiamo dimenticarlo. Anzi! Mons. Novarese non ha amato la sofferenza ma chi soffre e per questo ha combattuto la sofferenza che toglie significato, che vuole rendere tutto vano, inutile. A volte dimentichiamo questo. Dare valore alla sofferenza non è incitare a soffrire, ma affrontarla, sconfiggerla al punto da usarla per amare, facendone motivo di condivisione, di umanità, di attenzione verso i tanti, troppi fratelli che sono nel dolore insieme a me.

L’amore rende anche un male occasione per amare e così lo sconfigge. È in questo senso, solo in questo senso, che San Francesco chiamava “sorella” la morte, non perché non amasse la vita ma per disarmare la morte togliendole il pungiglione col quale inocula i suoi veleni più pericolosi: la disperazione, la rassegnazione, il turbamento, la paura. Novarese provò su di sé la malattia e la sofferenza e fece di questo motivo per aiutare gli altri ed affrontarla. Non dobbiamo anche noi fare lo stesso? Sperimentò la tempesta improvvisa del male. La tubercolosi era quasi una condanna a morte. I medici erano sfiduciati sulla sua guarigione e dissero a sua mamma, Teresa, di non sprecare il denaro, di lasciar perdere, che tanto non serviva a niente. La mamma non dette ascolto, anche contro il parere di alcuni parenti, e vendette la cascina per curare Luigi. “Finché avrò un solo grembiule da vendere lo venderò per curare mio figlio”. Ecco per me cosa è la Chiesa e come don Luigi ha voluto fosse per i tanti che sono disabili perché malati. E il disabile è sempre una persona, non è la disabilità! Don Luigi voleva una Chiesa attenta come una madre a ciascuno dei suoi figli. Tanti lo hanno aiutato a mostrare un amore così, e oggi ricordiamo e ringraziamo ad iniziare da Sorella Elvira. Anche se non si può guarire vale sempre la pena curare! Vale sempre la pena farlo e farlo è ben diverso da accanirsi! “La grazia consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Non lo è alla maniera del mondo. Per guarirci egli non resta fuori della nostra sofferenza: la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia per sopportarla e vivere con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova, ma in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre e in lui partecipa al parto della nuova creazione”, disse Papa Benedetto. È questa la scelta del Beato Luigi. Gli ammalati e i disabili furono i soggetti e non gli oggetti, tanto che i Volontari della Sofferenza e i Silenziosi Operai della Croce si confondono tra chi aiuta e chi è aiutato. Silenziosi perché fanno parlare Gesù e operai perché l’amore è anche lavoro. Don Luigi riconobbe il samaritano e imparò da lui a trasmetterne il volto di compassione, a sollevare, curare e valorizzare chi è colpito dal brigante che è sempre la malattia. Non pietismo, non assistenzialismo, ma amore, tenerezza e dignità.

Lo sguardo è quello della compassione, che è lotta profonda e con tutto se stessi contro il male e i briganti che portano via la vita, e contro gli altri complici dei briganti che, non facendo nulla, ne rubano l’altra metà. Se pensiamo a quante risorse vengono sciupate, alla speculazione sulle cure, alla solitudine cui vengono condannati tanti anziani, capiamo la sfida che abbiamo di fronte. Siete volontari, con amore e sensibilità, perché capiamo che solo insieme vinciamo. Capiamo che la fragilità è arte della vita! Solo i piccoli, chi ama come la mamma di don Luigi, chi soffre e capisce la forza deformante del dolore, chi rientra in sé e non gioca a fare il super uomo o il narciso che passa il tempo a contemplare la sua immagine, capisce questo. Gesù ci insegna ad essere umani! Ed è l’invito rivolto a tutti noi stanchi e oppressi. Lui ci darà ristoro. Ma è anche la proposta: il suo giogo, il legame per cui nessuno è solo. Questa è la vera consolazione di cui abbiamo bisogno, perché offre la vera risposta, un amore più grande della morte e non tante parole da esperti conoscitori ma che non amano. Nell’amore non abbandoniamo nessuno. Perché nessuno e nessuna situazione può giustificare tale abbandono. E non dobbiamo forse cercare una nuova alleanza tra tutti, alta, libera da ideologie e convenienze che protegga le persone, iniziando dal lasciarle e curarle nelle proprie case? Come possiamo accettare che migliaia di anziani siano lasciati soli nella debolezza? Come aiutare le tante sofferenze nascoste nelle pieghe della psiche, che provocano paure, fissazioni, malinconia? E come non sostenere chi è colpito da malattie degenerative, con tanta solitudine in chi accompagna? Se qualcuno è scartato iniziamo a scartare tutti e finiamo per scartarci da soli! Prendiamo il suo legame e leghiamo tanti a questa rete di amore con il nostro, ricordandoci che è sempre anche Suo! Quando questo avviene si rallegrano il deserto e la terra arida, si irrobustiscono le mani fiacche, e gli smarriti di cuore sentono concreto quel “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, Egli viene a salvarvi”. Non diciamo parole buone, ma presenza. Non cerchiamo interpretazioni ma amore, che è il solo motivo della vita e che la rende bella sempre. Non accanimento, che poi è la stessa logica dell’eutanasia al contrario, Prometeo. Ma accompagnare e rivestire di senso e dignità anche il soffio che la racchiude sempre tutta.

Ecco perché Gesù ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Dobbiamo temere un amore che non si sacrifica, perché non è amore ma benessere per sé, convenienza, e finisce per volere possedere e usare. La sofferenza mette paura ma questa la vinciamo non scappando, isolandoci, andando a risparmio, ma amando. L’amore qualche volta non conviene, come per la mamma di don Luigi. Ma l’amore conviene sempre! E attenzione che “una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana” (Spe Salvi 38). Ricordiamoci che se la preghiera degli anziani può proteggere il mondo, aiutandolo forse in modo più incisivo dell’affannarsi di tanti, ancora di più può farlo quella dei malati e per i malati. Nel nostro ospedale da campo che è il mondo, la Chiesa non smetterà di voler essere madre e di trasformare la sofferenza in consolazione e luce. Sono i segni dei chiodi che mostrano la bellezza della resurrezione! È vita vera che cambia, non caricature di questa! Il mondo ha tanto bisogno di cirenei, di amici della vita, di persone che seguendo l’esempio del samaritano Gesù fanno tutto per qualcuno che ancora non conoscono.

Ci accompagna questa preghiera del Beato: “Fammi credere, o Signore, nella forza costruttrice del dolore. Che io non veda nel male che mi blocca un ostacolo alla mia perfezione. Fammi capire come ogni istante di sofferenza può essere trasformato in tempo di salvezza. Ho bisogno di allargare i miei orizzonti, di comprendere che la vita non è soltanto quella che vedo. Voglio sentirmi un essere utile alla società, su cui tutti si possono appoggiare. Voglio identificarmi con Te, o Signore, per scoprire sempre di più l’ampiezza dei miei orizzonti”.

Cattedrale di Sant'Evasio - Casale Monferrato (AL)
12/05/2023
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