Omelia nella Festa di Sant’Anselmo, Patrono di Mantova

Ricordiamo Sant’Anselmo, il nostro Patrono di Mantova. Quanto ne abbiano bisogno! Ci fa sentire casa e ci ricorda che lo siamo e che possiamo esserlo, in un tempo di tanta paura e individualismo. Il suo è come il compleanno di tutti, quello che ci unisce a un luogo, a una storia. Ne abbiamo bisogno per non pensarci soli e cedere alla persuasiva convinzione che possiamo essere isole e che ciò sia più conveniente. I legami tra la Chiesa e la città degli uomini, e nella Chiesa tra quanti vi appartengono – il confine non lo conosciamo in realtà – non sono mai virtuali, e quello che unisce è molto fisico, concreto. In una generazione come la nostra, spaventata dai legami, eppure così desiderosa di averli, che vive la tentazione di renderli virtuali, digitali, cangianti, che non compromettono mai e che possiamo cancellare a piacimento, sentiamo la gioia di questa casa. Anselmo era un “vescovo e monaco”: lavoro e preghiera, spirituale e materiale, una comunità precisa, il monastero, e il servizio a tutti, il Vescovo. I santi uniscono sempre, non dividono. Matilde di Canossa lo volle come consigliere politico in un momento di tanta incertezza, confusione e violenza. La pace si misura sempre con la pandemia della guerra, silente o manifesta come quella che vediamo oggi. Che il Signore non ci faccia chiudere i cuori nell’abitudine o nella rassegnazione. E se non abbiamo, certo, le lotte contro il potere in senso “fisico”, il Signore ci aiuti a rendere la Chiesa sempre libera dai poteri contingenti, dalla logica della guerra, per affermare solo quella della pace, dagli opportunismi e dalla banalità della mentalità comune. Con il Patrono ci interroghiamo sulla città. Quali sfide oggi? Cosa ci chiede il bene di tutti? Pensiamo soprattutto agli anziani e alla solitudine.

Ci sentiamo tutti come quei greci del Vangelo proclamato. Vogliamo vedere Gesù. Non lo conoscono ma ne hanno bisogno. A volte è solo il desiderio di capire, la nostalgia che abbiamo scritta tutti dentro di noi, a volte sepolta sotto tante paure, abitudini, altre volte sotto cupezze e malinconie. Vogliamo vedere Gesù, vogliamo vedere il volto di Dio, conoscerlo, capire la sua presenza. I due primi discepoli gli chiesero: dove abiti? Questi stranieri lo chiedono ai discepoli di Gesù. Quanti cercano sicurezza, perché travolti da difficoltà che riempiono di delusione e di inutilità! Tanti vogliono vedere un amico che capisca, che dia risposte non banali, che non assecondi l’egoismo e non lasci ognuno padrone di se stesso e quindi, alla fine, individualista e solo. Tanti sperano di poter “vedere”, cioè conoscere personalmente, un uomo diverso, non pieno di sé, che non umilia gli altri per sentirsi qualcuno; che non cerca il proprio interesse; che sa spiegare il futuro così minaccioso ed insegna a costruirlo perché aiuta ad amare oggi. Tanti vogliono incontrare un maestro che parli con autorità, che non giudica, che aiuti a ricominciare ed a liberarsi per davvero del passato e che non smette di amarci anche quando siamo lontani. Quanti sentono il peso del limite della vita stessa e vogliono trovare speranza perché avvolti dall’oscurità, dal non senso della fine! È in fondo la domanda della Quaresima, ma anche di tutta la vita e di tutti noi: come posso “vedere” Gesù? E anche per questo siamo suoi discepoli: perché tanti possano “vedere Gesù”. I discepoli non impongono regole pesanti per verificare le reali intenzioni, per mettere alla prova. Occorre sempre avere tanto rispetto della coscienza e delle loro convinzioni, non spegnere la domanda con la durezza o la supponenza. Non dobbiamo mai ferire l’altro, soprattutto se egli è debole nella fede. Ma nei nostri cuori vedono riflesso l’amore di Gesù? Le nostre relazioni sono piene del suo “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”? Vogliono vedere Gesù e dobbiamo trasmettere la presenza nella sua Parola, ascoltata, predicata e vissuta, nei sacramenti e nel sacramento del suo amore. Diceva Paolo VI: “Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile.  Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia”. Ecco la nostra gioiosa responsabilità.

Cosa vedono i greci? Qualcosa di convincente, che si impone da solo? Un seme, un chicco di grano. Ecco cosa è la nostra vita e chi è Gesù, chicco di grano venuto dal cielo, mandato da Dio per mostrarci il suo volto e capirne la gloria. Sì. È solo nel donare la vita che capiamo la vita. Altrimenti semplicemente si resta soli. E da soli la vita finisce, diventa inutile, si possiede e resta com’è. Può avere tanto, ma non è se non si perde per qualcuno, se non serve nessuno, perché diventa inutile. Solo se caduto in terra produce frutto. Tutti noi pensiamo, al contrario, di amare se conviene, calcoliamo, facciamo i confronti, senza fidarsi, senza abbandonarsi, senza volere che quello che è nostro sia dell’amato. Tutto quello che è mio è tuo, dirà il padre al fratello maggiore, giusto ma senza amore, giudice senza resurrezione, e che resta solo perché senza il Padre, che non capisce, e senza il fratello che giudica perduto. Noi abbiamo tanto. Abbiamo tanto! Anche chi ha poco ha tanto, ha se stesso, quella ricchezza che capisci solo perdendola, non studiandola o interpretandola in astratto. Solo nella terra della vita, dell’incontro con il prossimo, nei frutti che non sarai tu a capire ma che ci saranno sempre, perché il seme darà sempre frutto. La vita non è mai sterile. Il seme è sterile quando non si perde, non ama. Amare, non possedere, controllare, usare, giocare. Chi ama la propria vita con il narcisismo, con l’egoismo, con la considerazione, la perde. L’unica considerazione è il frutto, sapere e fidandoti che ci sarà. Non lo sai prima. Ti devi perdere perché ci sia. Sarà così anche con la morte, il superamento ultimo dell’ultimo limite, quello della vita stessa. Quanto è vero. Cosa vuol dire perdere? Noi dissipiamo e ce la teniamo stretta. Per la nostra considerazione preferiamo l‘orgoglio, per paura restiamo con il poco purché sia nostro. È solo un problema di amore. Dio “perde” perché per chi ama la gioia è dare frutto all’amato. A che serve la nostra vita se non è di altri, di qualcuno, di tanti, a cominciare da chi ha più bisogno di frutti?

C’è sempre un turbamento quando si perde qualcosa. Lo superiamo solo per amore. Il male fa apparire inutile il perdersi per qualcuno, perché lui vuole far perdere per davvero la vita. Fa apparire tutto inutile o fa credere utile l’affermazione di sé, la verifica, il protagonismo personale. Salva te stesso, è la prima e ultima tentazione di Gesù e nostra. Urleranno contro la croce, quando sarà innalzato da terra. Il seme muore anche in questo buio che deve attraversare, quello della morte e quello del non senso. Hanno ragione loro? Devi odiare come loro? Gesù perde la sua vita e questa è la sua gloria, perché la gloria di Dio è l’amore, la vita amata e amante. Lì c’è la gloria. È la gloria di Dio, è quella più umana, più rivelatrice del profondo di ogni persona. Quando siamo ricordati perché abbiamo amato stiamo bene. Vedere la gloria di Dio ci fa sentire il suo amore infinito per noi. Per gli uomini gloria significa successo, vittoria, anche a costo di drogarsi per sentirsi qualcuno o per trovare delle capacità che si ha paura di non avere. Essere glorificati per gli uomini significa riconoscimenti, ruolo, comandare, stare bene. Gloria è il lusso, esibizione sciocca delle proprie possibilità; sono il denaro e le cose che crediamo diano felicità e dimostrino chi siamo. La gloria di Gesù, cioè il suo segreto di amore che rivela la sua forza, l’energia profonda del suo essere, quella che si rivela tutta nella Trasfigurazione, è quella di un chicco di grano che si lascia cadere in terra per poter dare frutto. Gesù non resta solo con le proprie ragioni. Non pensa che si è importanti se si resta dritti, senza chinarsi sugli altri, giudicandoli, servendosi di loro e non servendoli. Non è forse amara, piena di ossessioni, la soddisfazione di tenere tutto per noi, di possedere? Gesù ci insegna a evitare una vita che si esaurisce in sé, che si compiace di se stessa e non ama. Ne dovremmo provare proprio fastidio, pensando al tanto che abbiamo, al bisogno che c’è, alle conseguenze di violenza e di cattiveria che inghiottono la vita di tanti. Ci insegna a perdere quello che abbiamo e che siamo, per trovarlo. L’Incoronata ci protegga.

Cattedrale di San Pietro Apostolo - Mantova
16/03/2024
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