Omelia nella Giornata della Terra

L’evangelista Marco, di cui oggi celebriamo la memoria, è quello più essenziale, diretto, semplice. Ci ricorda la forza della parola, in un mondo che le moltiplica e le svuota, ascolta e non mette in pratica, che non ascolta perché parla sopra gli altri, dove si accavallano tante voci che si impongono per la forza, per i mezzi, per la capacità di corruzione, per l’inganno che contengono e che è difficile da scoprire. Non a caso, il pastore buono lo riconosciamo dalla sua voce, il mercenario invece inganna. Il Vangelo non rallegra in maniera rassicurante una generazione alla ricerca di prodotti di benessere, facili, poco impegnativi e a poco prezzo. Il Signore parla sempre attraverso qualcuno, a iniziare da quell’uomo, Gesù, il Figlio di Dio che affida – Lui ha fede negli uomini perché questi abbiano fede in Lui – tutto se stesso, il seme della sua vita pagato a caro prezzo, all’imprevedibilità di persone che potevano nasconderlo, perderlo, sciuparlo. Proprio come facciamo noi. Sentiamo viva la gratitudine per un Vangelo che ci fa incontrare Gesù nella sua umanità. Il suo amore ci interpella, si fa storia, ci insegna ad entrare nella storia che illumina con il suo amore che genera la nostra fede.

La liturgia ci fa ascoltare la conclusione del Vangelo. È un inizio. Il Vangelo genera vita e apre la via. Non rassicura che possiamo restare quello che siamo, ma ci coinvolge per capire chi siamo e per camminare dove siamo diretti. Diceva Frère Roger: “Gesù non dice sii te stesso, ma seguimi!”. La sua fine è l’inizio del mandato di Gesù ai discepoli: andare in tutto il mondo per proclamare il Vangelo e farsi riconoscere attraverso i segni di quelli che credono. Sentiamo questo secondo mandato come una domanda a noi, tutti. Gesù non seleziona i suoi ascoltatori, ma li rende tutti seminatori, operai. Chi ascolta, parla; chi è chiamato, va; chi è amato, ama. Proprio il contrario dei prodotti di benessere, rassicuranti, che blandiscono il nostro “io” con l’idea che tutto è in relazione al proprio ego, unico metro di misura. Il Vangelo ci insegna a misurarci sugli altri e a capirci in relazione con il prossimo. Il Vangelo ci fa entrare in relazione con Gesù e ci rende, proprio per questo, attenti a tutto ciò che riguarda i fratelli e le sorelle. La messe sono le persone, i luoghi, l’ambiente, insomma la casa di tutti, la stanza del mondo, come diceva san Paolo VI. Unica stanza e per tutti, non esclusiva, non divisibile e che non giustifica diseguaglianze.

Cari amici, voi parlate del Villaggio della Terra, espressione che ci rende consapevoli della prossimità, di una dimensione senza confini, possibile perché è villaggio, dove nessuno può pensarsi estraneo, osservatore, come se stesse da un’altra parte! In realtà sei in un villaggio! Qualche volta penso che i marziani esistano sicuramente e siamo tanti di noi che viviamo sulla terra pensando di essere da un’altra parte o di averne un’altra a disposizione. Ascoltiamo l’apostolo: per essere abitanti del villaggio non servono qualifiche particolari, possibili solo a qualcuno. Anzi, sono quelle che tutti possiamo avere, che troviamo dentro di noi. Non dobbiamo compiere chissà quale sforzo per raggiungere non si sa quale perfezione o capacità. Dobbiamo rientrare in noi stessi e rivestirci “tutti di umiltà gli uni verso gli altri”, cioè ricordarci che “siamo” quando gli altri sono, che “siamo” tutti uguali, tutti in realtà fragili, umili. E l’umiltà libera dalla deformazione dell’egoismo, con le sue tante varianti come quelle voraci della speculazione, del consumo, del credere di poter piegare tutto per sé, dei “superbi”. L’invito dell’apostolo ci aiuta a vivere bene nel nostro villaggio: “siate sobri” e “vegliate”! Sobri, cioè liberi dalle tante dipendenze che illudono e rendono prigionieri del proprio “io” o che ci fanno credere di vivere in un mondo che non esiste. Essere sobri significa anche cercare e difendere la gratuità, in un mondo dove sembra che se tu non paghi non puoi vivere e dove le diseguaglianze sono aumentate. Vegliare perché abbiamo visto il male, il nostro nemico “il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”. Lo sappiamo, lo vediamo. Il male è quel leone ruggente che oggi rende gli uomini lupi di se stessi e degli altri, che divora la vita di migliaia di persone. Il male è la guerra che genera pure lei, ma morte. Oppure ne fa complici sciocchi. Distrugge divorando, come la logica del consumo.

Oggi ricordiamo la liberazione del nostro Paese dal male che ha prodotto la guerra e lo sterminio del popolo ebraico. Ricordare la liberazione, fondamento della nostra casa e dell’Europa, significa anche ricordare come quel leone ha divorato la vita di milioni di persone, confondendo e ingannando tanti che ne sono diventati complici. Resistergli ha richiesto il contributo di molti che sono morti combattendo per la libertà, per la giustizia e la pace. La nostra è frutto del loro sacrificio. Ricordare ci insegna a non sciupare questo bene, sempre da difendere e mai scontato.

Gesù ci manda nel mondo. Non ci rende estranei o attenti a un altro mondo. È il sogno di “fratelli tutti”, non divisi ma uniti, più forti del demonio, capaci di parlare lingue nuove. Per Gesù i segni del Regno di Dio sono quelli che allargano gli spazi del bene e fermano gli assalti del male. Tutto ci riguarda, come dice la Gaudium et Spes, perché ogni creatura “riflette qualcosa di Dio e ha un messaggio da trasmetterci”.

Dopo la Laudato si’ di Papa Francesco ci siamo resi conto che nel rapporto con la creazione abbiamo peccato e ci siamo illusi. Il peccato ecologico – distruggere il villaggio e, quindi, anche i suoi abitanti – è frutto di un modello di umanità: quello che calpesta, sfrutta, degrada, inquina e uccide. Gesù ci invita ad avere cura di quello che ci è affidato, che è nostro (quindi anche mio e viceversa) ma che se pieghiamo alla logica dei tanti “io” lo distruggiamo. Ogni volta che ci chiudiamo in logiche predatorie falliamo miseramente. Quanti allarmi non ascoltati, anzi follemente e irrazionalmente ignorati, anche con la subdola e pericolosa predicazione del “non c’è problema”! È di questi giorni la notizia che la temperatura della Terra ha già oltrepassato di 1,15 gradi centigradi la media della fine del XIX secolo. La febbre del pianeta genera incertezza e paura. È sempre più difficile, se non quasi impossibile, mantenere la promessa degli accordi di Parigi del 2015, di poter contenere l’aumento della temperatura sotto gli 1,5 gradi. La questione dei cambiamenti climatici va correlata con quella della perdita di biodiversità.

Ogni anno perdiamo specie viventi che ci impoveriscono su tutti i fronti: la creazione “perde i pezzi” e quasi non ce ne rendiamo conto. Abbiamo la pretesa di dichiarare inutili alcune specie viventi di cui conosciamo poco o nulla. Ricordiamoci che c’è un rapporto tra i nostri stili di vita personali e quelli del mercato e quanto succede! Ma non basta la paura! Non è in nome della paura di una catastrofe futura che ci si converte, ma in nome di una passione per l’esistente. Il tema che avete messo al centro di queste vostre giornate – “Investi nel nostro pianeta” – ci deve vedere tutti assunti per un’opera di cura straordinaria, quella che Papa Francesco chiama conversione ecologica. A situazioni di eccezionale gravità non possiamo rispondere con la mediocrità del “faccio quello che posso” o “tanto va bene lo stesso” (variante dello sconsiderato “andrà tutto bene”, che può rassicurare i bambini ma non gli adulti!). Dobbiamo fare ciò che serve e non è vero che va bene lo stesso! Non ci è consentito dormire. Essere svegli vuol dire ascoltare l’allarme e decidere, non rimandare, prendersi delle responsabilità. In un mondo finito non possiamo illuderci di sfruttare risorse infinite. La strada della condivisione è il nostro bene. Non c’è altro futuro! Non fare niente è togliere tutto a chi viene dopo di noi. La sobrietà non è lo stile di chi vive con il freno a mano tirato, ma il dono di chi ha capito che le nostre vite sono intrecciate a quelle di tutti gli esseri viventi. Davvero di meno è di più.

E l’impegno per la cura del creato sia sempre unito a un’effettiva solidarietà con i più poveri: “Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente” (LS 229). Non accodiamoci alla schiera dei pessimisti di professione, ma arruoliamoci tra gli artigiani della cura. La sobrietà è il primo passo per guadagnare la meta di un pianeta a misura d’uomo e di ogni creatura. È il dono del Padre Creatore. Solo così potremo rendere di nuovo la terra il giardino che Dio ci ha affidato.

Villa Borghese - Roma
25/04/2023
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