Omelia nell’anniversario del martirio del Beato Rosario Livatino

Ci lasciamo sempre condurre dalla Parola di Dio. La nostra beatitudine, ciò che permette di rendere piena la nostra vita, l’indicazione delle nostre scelte, la correzione del nostro orgoglio, è sempre la Parola di amore che Dio rivolge ai suoi. Oggi ci parla di Esdra. Viveva una condizione di grande tristezza. Forse, se lo avesse ascoltato un nostro analista, avrebbe parlato con certezza di depressione. Si sente confuso. Scopre l’abisso del suo cuore, la vanità di tante sicurezze. Misura per sé e intorno a sé le tante “iniquità” e rilegge la storia che porta a un grande smarrimento. In una condizione difficile Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù.

La nostra storia è sempre anche di nuovi inizi e quando sperimentiamo la durezza del mondo intorno, che tanto condiziona la nostra vita, le fatiche che non permettono di vivere come si desidera, il Signore fa brillare i nostri occhi, ci fa sentire il suo amore, ci mostra la forza della sua santità, cioè del suo amore che diventa il nostro. Ecco, Livatino è senz’altro un segno della grandezza di Dio, che rallegra la nostra vita e la rende illuminata dalla speranza. E senza questa ci si perde, vincono il cinismo, il realismo triste e opportunista, la rassegnazione. A noi che sappiamo così poco comprendere le avversità, perché ci abituiamo, perché fatalisti, perché banalmente indifferenti o agitati dal protagonismo, è dato di incontrare un testimone così trasparente della speranza. Difficilmente qualcuno di noi direbbe che Dio ci punisce. Ma quando sperimentiamo il senso di fallimento, la delusione che porta a lasciar perdere, a combattere di meno o ad accettare le cose come sono, ecco che la memoria di testimoni come Livatino ci aiuta a vedere brillare la luce del Signore, a capire che sono gli uomini che puniscono e che Dio incoraggia a combattere il male, sempre. Ecco la Tutela Dei.

Ecco anche la forza della santità, così diversa dalla perfezione cui qualche volta l’abbiamo ridotta, perché la santità è solo amore, umano, amore per il Signore che diventa amore per gli uomini. Gesù chiamò i Dodici così come erano, contradittori, peccatori, tanto che il Vangelo stesso non li presenta certo come modelli di perfezione, di eroi perfetti, bensì come erano: peccatori che tradiscono e piangono, che scappano e poi si pentono. A uomini così offre un’indicazione temeraria: «Diede loro forza e potere su tutti i demoni e di guarire le malattie», raccomandando di «non prendere nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche». Dimostra piena fiducia nei discepoli e anche in chi accoglie. Per vivere il vangelo non servono abiti, ma un cuore pieno di amore. Essere pieni della sua forza capace di vincere tutti i demoni. Cioè lo spirito del male, di divisione, quello che diventa un sistema di ingiustizia, evidente o meno che sia, di morte.

Oggi la riconosciamo chiaramente con la mafia, sistema che certo non è sconfitto, anzi, forse mettendola al plurale è ancora più temibile proprio perché meno visibile, come i poteri occulti. Rosario Livatino era un magistrato e viveva il suo servizio da cristiano. Attendeva dal Signore motivo per vivere la sua professione come servizio, per essere attento alla verità, alla lealtà, con piena purezza di intenti a favore della dignità della persona umana e del bene comune. Nelle allegorie la giustizia è una donna bendata che regge una bilancia, che sa pesare, dare il giusto valore, in maniera imparziale, come deve essere, senza essere condizionata dalle umane simpatie o tanto meno da interessi. La scrittura parla di bilance false. L’imparzialità è richiesta nell’esercizio della giustizia, che ovviamente non significa disinteresse, incomprensione dei problemi, delle situazioni, della storia personale, unico modo per arrivare ad un giudizio equo. Livatino non accettò nessun compromesso con la mafia e solo questo lo rendeva libero. Si sa come la mafia facilmente intimorisce. A volte nemmeno direttamente. Il suo abito era interiore, e come disse Papa Francesco «non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare, ma il senso stesso della vostra identità personale e sociale. Il discernimento è la condizione per distinguere il bene dal male». «Quando moriremo – sono le parole di Livatino – nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Livatino è stato assassinato a soli trentotto anni, lasciando la forza della sua testimonianza credibile, ma anche la chiarezza di un’idea di magistratura a cui tendere.

Non aveva smesso di credere, nonostante i problemi, e penso anche alle delusioni di non vedere realizzarsi un regno di giustizia e di pace. E sappiamo come le due sono intimamente unite. Non c’è pace senza giustizia. E chi lavora per la giustizia lavora sempre anche per la pace, perché il diritto compone gli inevitabili conflitti. Si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. “STD, Sub Tutela Dei”. Livatino rispettava gli imputati, anche quelli che si erano macchiati dei più gravi delitti. Per lui erano innanzitutto persone. «All’interno del carcere c’è una persona che non deve restare neanche un minuto in più. La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa». Individua i legami tra mafia, grandi imprese e politica, locale e nazionale. Combatte chi deturpa l’ambiente, decenni prima che si parlasse di ecomafie. Scrive in una delle agende: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». Credibili è il contrariò dell’apparenza! Non si è credibili per quello che si fa vedere ma per quello che si fa, perché si è credibili anzitutto davanti al Signore e, per questo, per davvero davanti agli uomini. Chi ama il Signore è veramente se stesso senza aggiustamenti e furbizie. Un uomo credibile, anche uno solo, aiuta a credere.

Oggi sentiamo fortemente il bisogno di una giustizia credibile, di istituzioni forti perché credibili, che vincano tanta disillusione. Senza queste la nostra casa comune crolla. Ecco la lezione che oggi ci consegna Livatino, sempre con il garbo umile e semplice di persona che pensava la sua vita come un servizio. Ci insegna a non arrendersi, a non mettersi al centro ma a servire, cioè mettere al centro l’amore per il prossimo, fino alla fine, senza guardare in faccia nessuno. Ci insegna l’amore per la giustizia che è amore per tutti. Ecco, questo è l’onore che vi spetta. La giustizia è l’abito interiore per i magistrati, ma «non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare», bensì «una missione nobile e delicata». Quella per cui vale la pena vivere e anche morire.

Grazie Rosario Livatino, testimone credibile che ci aiuta a credere nella giustizia e a cercarla con tutto noi stessi. Per amore suo che vuol dire di tutti.

Cortile d'Onore della Corte Suprema di Cassazione - Roma
27/09/2023
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