BOLOGNA – Pubblichiamo la sintesi del percorso sinodale della diocesi di Bologna, presentata il 15 giugno ed inviata alla segreteria del Sinodo come contributo della nostra diocesi.
In vista della sintesi da presentare alla diocesi, tre sono le priorità individuate nei percorsi sinodali di questi due anni (fase narrativa).
1) Lo stile sinodale permanente nella Chiesa
Al cuore del cammino sinodale c’è la questione del metodo. Il sinodo è il tentativo di avviare una conversione profonda della coscienza delle nostre comunità, stimolando scelte operate come Popolo di Dio attraverso un discernimento in comune.
Riconosciamo l’esistenza di più livelli del “camminare insieme”. Ma se è vero che siamo una corresponsabilità di battezzati, se è vero che il sinodo ci insegna un nuovo stile di camminare insieme nella Chiesa, le scelte devono sempre partire da un ascolto diffuso e non dal solo vescovo (o dal solo parroco). I vescovi dovrebbero fare tesoro di quanto emerge e partire dall’ascolto. Fondamentale è fare le cose insieme, entrare in una forma di discernimento che sia espressione di un sentire più ampio.
Sarebbe opportuno non cadere nella logica della delega. Quando una comunità/parrocchia sente che ci sono temi e decisioni importanti e urgenti per la propria vita, può e deve mettere in campo delle azioni concrete.
Come battezzati, sentiamo la necessità di sostenerci reciprocamente per stimolare scelte “dal basso” e a diversi livelli (da quello locale a quello universale), che siano il frutto di un reale discernimento del sentire del popolo di Dio. Dalle domande dei Cantieri abbiamo percepito un ingaggio personale diretto ad ognuno di noi battezzati: «tu cosa sei disposto a fare?». Ecco perché riteniamo che qualcosa debba già cominciare dalle singole comunità. Non è necessario attendere che tutto sia proposto e deciso “dall’alto”.
Per due anni ci siamo esercitati in uno stile di ascolto: ora si deve imparare uno stile di discernimento in comune. Come si fa a discernere insieme? Così come l’ascolto è stato a tutti i livelli, così deve essere anche per il discernimento.
2) Il ruolo dei presbiteri e dei laici in una Chiesa che cambia
Dall’ascolto di questi due anni, emergono diversi interrogativi attorno alla ministerialità ordinata e al ruolo dei laici.
Quali sono già ora gli spazi disponibili (nei limiti del diritto canonico) per realizzare una prassi di corresponsabilità effettiva che coinvolga anche i laici nelle decisioni relative alla vita delle comunità? In pratica, come si fa a mettere il discernimento in comune al centro delle dinamiche di governo delle comunità?
Quale ministero presbiterale appare adeguato per una Chiesa sinodale? E quale di conseguenza il percorso formativo? Se finora i presbiteri sono stati formati per essere amministratori unici di tutti gli aspetti relativi alla gestione della vita parrocchiale − dai beni materiali alla cura delle anime −, le nuove indicazioni nella formazione del prete sembrano identificarlo maggiormente come «uomo del discernimento». C’è una bella differenza. Come transitare da un modello all’altro?
Contestualmente, a livello dei laici si avverte la necessità che cresca realmente la coscienza di una vera corresponsabilità nella Chiesa.
3) Relazioni e linguaggio: la difficile accoglienza dei giovani
Ci interroghiamo sull’aspetto relazionale nella comunità cristiana e come creare comunità in cui ci sia spazio per tutti, e in particolare per i giovani.
Le parrocchie dovrebbero essere «casa e luogo di benessere». Appaiono invece costituite da gruppi separati che condividono solo rare occasioni di incontro. Ogni gruppo fa il suo (magari bene), ma questi non si incontrano mai, a scapito di una prassi che esprima realmente un camminare insieme. Questo rende difficile inserirsi in parrocchia.
«I giovani ci sono, ma le nostre comunità non li cercano là dove sono». La questione giovanile appare legata anche ai nostri linguaggi: molto interni e sempre meno comprensibili, a cominciare dalla liturgia, poco attraenti e coinvolgenti, lontani dalla concretezza della vita di tutti i giorni.
Chi si occupa di catechesi e accompagnamento dei più piccoli segnala che la celebrazione eucaristica è molto faticosa da comprendere e da vivere per i bambini che non ne hanno esperienza, provenendo sempre più spesso da famiglie che “non frequentano”.
La sintesi che ci è richiesta in conclusione della “fase narrativa” deve tenere conto delle esperienze e delle sintesi dei due anni ed è guidata da tre domande poste dalla presidenza del cammino sinodale nazionale, di seguito riprese.
1) Per la continuazione del cammino sinodale in diocesi, quali esperienze scaturite dalla fase narrativa vogliamo continuare e far crescere nei prossimi anni? (Iniziative, progetti, cantieri iniziati…). Indicate e descrivete brevemente queste esperienze (massimo tre).
Suggeriamo la prosecuzione dell’esperienza dei facilitatori come possibile ambito formativo. Occorre però immaginare, dopo la fine della fase narrativa, quale ruolo specifico potrebbero assumere nelle comunità. Li si può immaginare, ad esempio, come moderatori del consiglio pastorale. Pensando alle nostre comunità, appare evidente l’esigenza di persone preparate che sollecitino e animino i processi decisionali in uno stile conforme alla natura sinodale della Chiesa. Secondo quanto espresso nel Documento per la Tappa Continentale: «La Chiesa ha bisogno di dare una forma e un modo di procedere sinodale anche alle proprie istituzioni e strutture, in particolare di governo» (n. 71). «Per funzionare davvero in modo sinodale, le strutture avranno bisogno di essere abitate da persone adeguatamente formate, in termini di visione e di competenze (…). Questa nuova visione avrà bisogno di essere sostenuta da una spiritualità che fornisca strumenti per affrontare le sfide della sinodalità senza ridurle a questioni tecnico-organizzative, ma vivendo il camminare insieme a servizio della comune missione come occasione di incontro con il Signore e di ascolto dello Spirito» (n. 72).
Segnaliamo l’esperienza del percorso proposto dalla Pastorale familiare diocesana, che ha coinvolto e messo a confronto gruppi diversi tra i quali un gruppo di divorziati risposati, coppie di sposi, un gruppo di cristiani LGBT e un gruppo di genitori “in cammino” (genitori di figli LGBT) con il desiderio di sperimentare lo spirito evangelico dell’incontro con l’altro che ci fa sentire tutti parte di un’unica Chiesa, comunità nella quale tutti hanno un posto e dove nessuno è escluso. La proposta appare interessante sia per i riscontri positivi che la accompagnano sia per quanto troviamo indicato nel Documento per la Tappa Continentale (n. 39): «Tra coloro che chiedono un dialogo più incisivo e uno spazio più accogliente troviamo anche coloro che per diverse ragioni avvertono una tensione tra l’appartenenza alla Chiesa e le proprie relazioni affettive, come ad esempio: i divorziati risposati, i genitori single, le persone che vivono in un matrimonio poligamico, le persone LGBTQ, ecc.».
Altra esperienza interessante è stata quella proposta dall’ufficio catechistico ai genitori dei bambini del catechismo che si preparano a ricevere la prima Comunione e la Cresima. I genitori chiedono una Chiesa che sia casa, che sappia accogliere i figli in un ambiente adatto a loro. Talvolta si sentono impreparati di fronte alle domande di fede dei figli e domandano per loro una formazione semplice ma da adulti, per imparare a ritrovare il divino nel quotidiano della vita e della casa, anche per riscoprire il dono del sacramento che il figlio si accinge a ricevere. La riuscita di questi momenti di ascolto potrebbe suggerire l’importanza di mantenere vivo il confronto con le famiglie anche negli anni successivi. La formazione cristiana degli adulti corrisponde anche a una delle urgenze maggiormente sentite e proposte come impegno alla nostra Chiesa dalle note pastorali del Vescovo.
2) Una esperienza da evidenziare che può servire da stimolo e spunto per le altre Chiese
Gruppi sinodali con utenti della Caritas
L’idea nasce da un’esperienza promossa dalla Caritas diocesana («Il tè delle tre»), come occasione di incontro-ascolto tra volontari e utenti e proposta poi a tutte le parrocchie. Tra febbraio e marzo 2023 si sono tenuti incontri di questo tipo in 30 Caritas parrocchiali. Sono stati un importante luogo di incontro con persone di varie etnie e religioni, generalmente in condizioni sociali disagiate.
Dice un operatore: «Pensavamo di trovare difficoltà a far decollare i racconti delle proprie esperienze e che ci fosse la necessità di incoraggiare in qualche modo le persone, invece, ci ha stupito la facilità con cui esse hanno espresso i loro pensieri. I commenti positivi di tutti al termine dell’incontro ci fanno riflettere e ci spingono ad organizzare in futuro altre occasioni di ritrovo e di dialogo».
Le persone si sentono accolte dalla Chiesa quando, oltre all’aiuto concreto, «ricevono un abbraccio e una parola», quando sperimentano di essere guardate senza giudizio e oltre i pregiudizi. Quando ci si sente accolti si desidera donare la stessa esperienza ad altre persone in difficoltà. Come testimonia un utente: «avevo bisogno e mi hanno ascoltata poi sono rimasta ad aiutare ogni martedì».
Le persone, al di là del loro credo religioso e della loro etnia, sentendosi accolte e ascoltate sperimentano l’appartenenza a una comunità di vita, a una famiglia. Molto spesso sono state loro stesse a chiedere che l’esperienza diventasse un momento stabile. Nel rispetto di tutti, l’incontro è sempre stato aperto con un momento di preghiera al quale ciascuno partecipava secondo la propria tradizione e sensibilità religiosa.
L’esperienza appare piuttosto significativa anche in ordine agli obiettivi del cammino sinodale, così come già espresso nel Documento preparatorio del Sinodo. Uno degli obiettivi era il seguente: «vivere un processo ecclesiale partecipato e inclusivo, che offra a ciascuno – in particolare a quanti per diverse ragioni si trovano ai margini – l’opportunità di esprimersi e di essere ascoltato per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio». L’ascolto delle persone in condizioni di marginalità sociale (come è stata l’esperienza delle Caritas) è stata un segno significativo e profetico di inclusione e integrazione, che non può che far bene non solo alla costruzione del Popolo di Dio, ma in senso più ampio alla nostra convivenza civile che sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione dello straniero, del migrante, del «diverso» conosce una delle tensioni più evidenti.
3) Che cosa abbiamo imparato sul camminare insieme in questi due anni? Elencate due aspetti rilevanti
Come frutti positivi, possiamo dire che in questi due anni si è sperimentata e consolidata una certa capacità di ascolto dentro le nostre comunità, abbandonando le formalità per uno stile più vero e meno scontato di incontro.
Chi si è lasciato coinvolgere ha accolto con favore l’opportunità di essere ascoltato. La possibilità di avere uno spazio di confronto e ascolto, in cui esprimere il proprio vissuto e il proprio punto di vista, è stata ritenuta dai partecipanti un’esperienza molto positiva. La partecipazione a questa fase di ascolto è stata autentica, segno che le persone, se sentono di essere ascoltate e valorizzate, rispondono all’invito al dialogo e lo fanno in sincerità e con generosità.
Emerge una certa difficoltà a essere concreti, ovvero a passare al piano dell’azione e a declinare in scelte operative quanto viene espresso e condiviso. È quindi avvertita forte la necessità che la fase di ascolto approdi da qualche parte (e non sia fine a se stessa); in particolare essa dovrebbe essere la prima parte di un processo di discernimento in comune.