Covid

«Io, medico, fra i malati con fede e umanità»

La testimonianza di Caterina Testoni e del suo impegno umano e professionale all'ospedale «Bellaria»

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BOLOGNA –  La prima linea: i reparti Covid che in questi mesi abbiamo imparato a conoscere attraverso le immagini delle tv e dei giornali. Da lì viene la testimonianza di Caterina Testoni, medico anestesista del «Bellaria».

Una dura prova dal punto di vista professionale e umano. Tre i fronti: quello del paziente e della malattia, quello personale di fronte al dolore e alla morte e infine il rapporto con i parenti dei ricoverati. Medici e infermieri erano, e sono, l’unico e l’ultimo ponte di collegamento tra i familiari e i loro cari. Lì il rapporto d’amore si è interrotto bruscamente, senza preavviso e a volte senza la possibilità di un ultimo saluto. La storia di Caterina è come quella di tanti altri lavoratori della sanità che si sono trovati in guerra con tante paure e difficoltà ma che hanno saputo
mettere in gioco tutta la loro professionalità, e anche le loro convinzioni, in settimane di piena emergenza sanitaria, come quelle che stiamo attraversando. Accanto alla scienza e all’organizzazione è spesso l’umanità che fa la differenza, che salva; almeno qualcosa. Caterina ha portato la sua testimonianza alla preghiera del Mercoledì di Quaresima con il cardinale lo scorso 10 marzo.

Cosa è successo in quei mesi?

È stata un’esperienza molto dura sia dal punto di vista professionale che umano. Per la prima volta ci siamo trovati davanti ad una malattia che ci ha posto tanti limiti terapeutici che non conoscevamo, nonostante i colleghi di altre città ci avessero già dato alcune indicazioni per il trattamento dei sintomi. Purtroppo la terapia è stata una conquista quotidiana fino a raggiungere, come oggi, una consapevolezza su cosa fare non appena si presenta un paziente con sintomi. All’inizio purtroppo arrivavano pazienti con quadri clinici severi, anche da altre città, che rapidamente andavano incontro al decesso. Abbiamo gestito pazienti anche in reparto e con enorme difficoltà, perché c’erano vari quadri di gravità della malattia e purtroppo diversi dovevano essere seguiti senza la possibilità di essere trasportati in terapia intensiva. Anche i non «intensivisti» svolgevano il nostro compito sia in terapia intensiva che nei reparti internistici.

Dal punto di vista personale, cosa le ha lasciato quella esperienza?

Il coinvolgimento umano è stato tanto. Siamo stati accanto ai malati in tutto e per tutto, nella consapevolezza che è sempre più importante prendersi cura delle persone malate e farsi carico anche di situazioni famigliari talvolta
molto complesse. Quotidianamente aggiornavamo i famigliari di ogni singolo paziente circa il quadro clinico. «Ce la farà? Non ce la farà?». Era questa la domanda che ci veniva fatta più spesso e, tante volte, è stato molto difficile comunicare una prognosi infausta rassegnando il famigliare al fatto che non avrebbe più visto il loro caro. Ci chiedevano una carezza per loro, una preghiera, oppure di dire loro qualcosa per fargli sentire la vicinanza e la partecipazione del proprio congiunto. Questo è avvenuto anche per i pazienti che si trovavano in reparto. Spesso li andavamo a salutare, ad accarezzarli. Ma eravamo impediti da tante barriere rappresentate dai dispositivi di
protezione individuale.

Poi c’è il punto di vista della fede, che può essere un’arma i più o può metterci in crisi. A lei come è andata?

Durante il primo mese di pandemia ho perso la mia guida spirituale. Per me è stato un colpo molto duro: ho attraversato alcuni giorni di estrema fragilità spirituale. Poi, proprio ricordando le parole di questa persona, ho
riflettuto sul grande progetto che il Signore ha per ognuno di noi. Ho cominciato ad affidare nelle sue mani le difficoltà di ogni giorno, chiedendogli di rendermi uno strumento di guarigione per i miei pazienti. Certamente dal punto di vista fisico ma, laddove non fosse stato possibile, almeno da quello spirituale. La stessa cosa ho cercato
di fare verso i miei colleghi del personale sanitario, perché c’é stato bisogno di farci tanta forza l’uno con l’altro dopo l’impatto su di noi di qualcosa di enorme e al quale non eravamo preparati nonostante il lavoro che facciamo.

Luca Tentori

Riportiamo il testo di una preghiera scritta da Caterina Testoni per questo periodo di pandemia.

Signore mio, in questo momento di preghiera, ti chiediamo di accogliere nel tuo Regno tutte le anime di coloro che hanno combattuto una malattia che non ha permesso la salvezza del corpo. 

Accogli le loro anime, lenisci le ferite dei corpi che rimarranno segni sospesi della vita terrena e per noi medici stigmate della nostra impotenza. Sii luce di conforto per i famigliari, genitori, figli, mariti, mogli, nonno di chi non è più tra noi, ma al tuo fianco.

Fa che i loro cuori siano consolati nel dolore della morte dalla certezza della dimora presso il Padre. Dolore, ferite, lacrime, pianti, disperazione, parole non dette, non rimangano senza frutto, ma siano strumento di redenzione per tutti noi.

Custodisci ogni gesto, ogni scelta e ogni speranza di noi medici perché possano rimanere testimonianza di un impegno incondizionato, a volte disperato, verso una malattia che ha superato la forza terrena della scienza, ma non la rassicurante protezione e presenza del Padre Nostro.

Ricordiamoci le parole di Giovanni: ”Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no, vi avrei mai detto “vado a prepararvi un posto?” Sostienici accompagnandoci in questo cammino di sofferenza perché ogni conquista sia un passo verso la dimora hai preparato per noi nel conforto dei nostri cuori.Accogli queste anime, custodiscile e insieme a loro veglia su di noi. Noi ti preghiamo. Amen.

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